di Daniel Modigliani
Architetto e Urbanista, Commissario Straordinario Ater
Il termine “periferia” è talmente generico che mantiene ormai solo il senso originario di luogo “emarginato”. Fuori dal centro, al di là del margine. Ma l’emarginazione, che connota le periferie, non ha più un diretto riferimento alla condizione fisica di essere al di là del margine (della città), ma ha un’origine complessa nella quale gli aspetti economici, sociali e ambientali sono prevalenti. I confini delle periferie corrono nel corpo delle città. Non solo ai suoi margini, ma anche nei tessuti più recenti, ancora non integrati nel corpo urbano. Le “periferie” urbane e le sacche degradate dei centri storici sono i luoghi in cui la crisi sociale si salda con la crisi ambientale. La città assimila le parti nuove con tempi che si misurano in generazioni. Il riscatto delle periferie è un fenomeno continuamente in atto. Basta solo una buona politica per accelerare positivi processi di recupero.
Ma nel corpo indifferenziato della metropoli i problemi sociali restano, a partire da quelli indotti dalla povertà, e migrano all’interno del territorio urbano. Quello che una volta era un problema del centro storico, o delle corone consolidate, diventa un problema dell’hinterland e dei comuni vicini. Nei progetti per un miglior governo delle trasformazioni del territorio si cerca di perseguire l’obiettivo di rigenerare le città, intendendo non solo gli interventi di restauro o di riqualificazione del patrimonio edilizio, ma l’avvio di programmi in grado di tenere insieme tutta la complessità della situazione attuale. Non basta l’attenzione alla trasformazione fisica. Si devono tenere in conto e valutare i processi economici, lavorare per l’eliminazione del disagio sociale, porsi finalmente il problema del miglioramento delle condizioni ambientali, contribuendo a far crescere la qualità della vita degli abitanti, sostenendo processi di valorizzazione delle risorse culturali tangibili e intangibili e delle risorse ambientali e naturali.
Tuttavia il complesso dei problemi che determinano l’emarginazione sono solo parte degli aspetti che gli urbanisti e gli architetti debbono affrontare, peraltro insieme con gli esperti delle discipline specifiche, anche se questa parte oggi sembra prevalente. Storici, antropologi, geografi, economisti, sociologi per le materie umanistiche, zoologi, geologi, botanici, ingegneri del traffico e ingegneri esperti nelle varie discipline della protezione ambientale, tutti debbono concorrere a migliorare le nostre città. Ma solo gli urbanisti, gli architetti e gli artisti sono in grado di affrontare i progetti per dare forma e sostanza alla qualità degli spazi urbani e degli spazi domestici. Una nuova stagione di ricerca della bellezza deve basarsi sulla storia dell’arte urbana e affrontare il disordine e il degrado della città contemporanea con gli strumenti del progetto, cercando di ridisegnare non solo singoli manufatti, ma parti e spazi già esistenti. Se necessario anche demolendo le parti inconciliabili con i nuovi assetti, ma cercando sempre di garantire la restituzione agli abitanti dei loro beni e dei loro valori. Non basta la street art, o la cosmetica urbana che pure contribuiscono al miglioramento, ma serve la reinvenzione di spazi urbani nei quali la città torni a svolgere i suoi quotidiani riti collettivi. Non bastano graffi, affreschi o mosaici e una disseminazione di opere d’arte più o meno a caso negli spazi pubblici, servono spazi progettati per essere vissuti dalla comunità.
È una rimozione della realtà parlare di “periferie” quando la stragrande maggioranza degli insediamenti urbani è “periferia”. Oggi le città storiche ospitano in una piccola area una piccola percentuale degli abitanti insediati. Le “periferie” sono la città. Va cambiata la lettura della natura della città. I problemi urbani vanno affrontati nelle situazioni reali. L’automobile, che ha imposto il disegno della città contemporanea, sta perdendo la sua funzione di unico mezzo di trasporto e la funzione di modello di status sociale. La velocità di spostamento fisico è resa secondaria dalla velocità delle reti di comunicazione immateriali. I mezzi di trasporto collettivi, quando funzionano, rendono meno pressante l’esigenza del trasporto individuale. Gli enormi spazi occupati dalle automobili in movimento e in sosta vanno riconquistati. Sono già spazi pubblici. Le città hanno sempre più pressante il bisogno di un progetto. Un progetto per il futuro. Non una nuova immagine, non un disegno astratto, ma un indirizzo per la loro vita nel medio e nel lungo periodo che renda organici e flessibili nel tempo gli interventi senza irrigidimenti, sempre smentiti dalla storia.
Al di là degli indirizzi generali, ormai generalmente condivisi dalla cultura dell’urbanistica e della città in generale, si tratta di regolare concretamente gli interventi, che sono sempre puntuali e che possono segnare il destino di intere parti di territorio urbano. Si può cambiare in meglio, verso una condizione non più “periferica”, o avviarsi verso il declino fisico e sociale. L’intervento per cambiare una parte di città è sempre e comunque un progetto che ha bisogno di una visione, di un programma, di tutte le competenze tecniche sotto la guida di un responsabile in grado di governare la complessità fino al compimento dell’opera.
Fino a un secolo fa si poteva andare a piedi da un capo all’altro della propria città e nell’andare se ne percepiva la varietà, la complessità e la bellezza. A Roma si può oggi andare in un’ora a piedi da nord a sud e da est a ovest entro la cerchia delle mura aureliane. Ma abbiamo perso la percezione dello spazio urbano a portata di pedone. Oggi la percezione della città è profondamente cambiata. Solo le piccole città hanno mantenuto un rapporto di simbiosi identitaria tra i luoghi e le persone. Ogni cittadino vorrebbe la sua città più ricca e più bella, perché fosse lo specchio collettivo della sua esistenza individuale: la sua identità sarebbe confermata dall’appartenenza alla sua città. Si vive nei singoli quartieri o nei canali obbligati dagli spostamenti per lavoro. Il luogo dove si vive non è più una città, ma una parte di essa inserita in una entità più grande e per lo più ignota. I singoli quartieri hanno generalmente una dimensione demografica contenuta che corrisponde a un campo fisico di prossimità, con i servizi essenziali a una distanza percorribile anche a piedi in un tempo accettabile, dove il parco, la scuola, il campo giochi, la chiesa, la piazza sono i luoghi della vita quotidiana. La dimensione demografica dei quartieri, tra circa 2.000 e 10.000 abitanti, è la dimensione media degli 8.000 Comuni italiani. È una sorta di unità di misura che la storia ci ha consegnato che individua il campo nel quale le relazioni di comunità garantiscono il controllo sociale e rende possibile il buon governo. Sono oggi più che mai necessari alcuni criteri nella lettura delle città. Il primo riguarda l’attenzione alla dimensione del fenomeno urbano che si analizza. Dal borgo rurale al villaggio, dal villaggio alle piccole città che costellano il territorio europeo si riconosce una entità urbana da una soglia minima di abitanti e dalla qualità e dall’uso dei loro spazi comuni. I nomi dei quartieri, come quelli dei piccoli Comuni, marcano l’esistenza di queste entità fisiche e di queste comunità. A Roma, una ricerca del CRESME individuò, alla fine degli anni Novanta, circa 200 piccole città che furono chiamate “microcittà”; tanti piccoli “paesi”. Queste piccole parti di città non comunicano tra loro e non si integrano con la metropoli. Vivono in una sorta di autoreferenzialità. Può essere che l’origine sia un gruppo sociale che difende i confini del suo territorio, oppure una comunità immigrata che ha trasferito le sue radici culturali e le sue tradizioni, oppure il risultato di un trasferimento di massa in un complesso di case popolari. Piccole isole di comunità diverse.
Gli abitanti in genere lasciano che siano i giovani, nel loro spontaneo raccogliersi in luoghi o gruppi, a difendere i confini in una sorta di gioco che favorisce l’identità locale e marca le differenze con “gli altri”, che magari vivono a poche decine di metri. Campanilismi con radici profonde che possono aiutare la crescita civile delle città, in una sana concorrenzialità tra quartieri, ma diventano difficili da gestire nelle metropoli, quando degenerano in conflitti sociali. Anche i quartieri tendono a perdere l’identità, come gli individui nelle città. Sono anch’essi oggetti di continui cambiamenti. Se diventano più accessibili o meglio dotati di servizi, o, come qualche volta succede, diventano “di moda”, il loro appeal cresce con il crescere del valore immobiliare e la popolazione originaria viene sostituita da un ceto sociale più abbiente.
L’isolamento dei singoli quartieri è uno dei problemi più rilevanti della metropoli. Le persone, uscendo dal confine fisico e mentale del loro “paese”, vanno da uno spazio a un altro, conosciuto o ignoto, ma nel percorso non riconoscono nulla, percepiscono solo il tempo del passaggio stesso. Ci si immerge sottoterra in una stazione della metropolitana, si accetta un vagone o un autobus come spazio di una piccola comunità casuale, si emerge in un altro mondo. Non è molto diverso se si sale in automobile, si guida nel traffico facendo sempre lo stesso percorso, si parcheggia. Da quel punto di approdo si entra in un altro mondo. Nel viaggio si è alienati. Gli abitanti della metropoli conoscono i loro quartieri di residenza, ma quasi per nulla i contesti urbani dei luoghi di lavoro, meno ancora i luoghi dei servizi che la metropoli comunque offre. La percezione della metropoli quindi è assai parziale e quasi sempre un altro quartiere, anche adiacente, è totalmente ignoto e la relazione tra due luoghi, di origine e di destinazione, non c’è, o si crea solo in modo casuale. Oggi i cellulari collegati alla rete permettono di individuare nuovi obiettivi, magari per lo svago o per le attività sportive, rassicurano gli utenti guidandoli per percorsi certi, mostrano mappe e foto aeree di mondi sconosciuti. Si determinano quindi migrazioni di massa, ad esempio verso i grandi centri commerciali nei giorni di festa, e aumentano considerevolmente gli spostamenti non sistematici, specialmente dei giovani, spinti dalle mode, dalla sete di conoscenze e di esperienze. Per fortuna questi spostamenti avvengono o nei giorni festivi, o nelle ore notturne, cioè quando non si lavora, altrimenti avremmo conseguenze insostenibili sulle reti di mobilità, già oggi al collasso. E tuttavia questo modo di vivere e usare la metropoli è lo stesso in tutto il mondo. Le differenze ci sono, e sostanziali, quando si approfondisce il tema della capacità delle metropoli di rendere disponibili per tutta la popolazione i servizi più importanti. La possibilità di spostamento con un mezzo pubblico veloce ed efficiente, del quale sia nota la disponibilità in termini di orari e di frequenze, distingue una metropoli moderna da una arretrata. Le possibilità offerte dalle città, senza le connessioni di rete, soprattutto quelle della mobilità fisica delle persone e delle merci, sono drasticamente ridotte. Il nodo del traffico, che toglie tempo, energie e risorse alle comunità, è ordinariamente percepito come il problema principale. La perdita quotidiana di ore di vita, in balìa di un sistema incontrollabile, è un evidente fattore negativo percepito da tutti. Ne consegue che l’alienazione individuale e collettiva durante gli spostamenti sempre più spesso si trasforma in aggressività.
L’abbandono delle campagne con l’inurbamento conseguente alle rivoluzioni industriali è stato il più recente degli stravolgimenti epocali nel mondo occidentale. Il fenomeno è avvenuto in tempi diversi nei diversi stati ed ha segnato anche, nei tre secoli passati, oltre che gli assetti economici e sociali, anche gli assetti territoriali. Questo cambiamento epocale ha prodotto la nascita e la crescita dei quartieri operai che hanno circondato le antiche città che si trasformavano in città industriali, chiudendole in un muro di “periferie”. Naturalmente non tutte e non tutte nello stesso modo. Ma lo scollamento funzionale tra città preesistente e nuovi quartieri ha isolato parti residenziali monofunzionali. È iniziata la cultura urbanistica dei quartieri “aggiunti” già in sé “periferie”. Significativo è il permanere nella lingua e nella cultura del vocabolo “quartiere”, che nasce con la quadripartizione delle città romane di nuova fondazione dell’intersezione del cardo e del decumano entro la cinta muraria. “Quartiere” era una parte identificabile nella città murata con una sua comunità e una sua minima dotazione di servizi e non una nuova parte di città. Per estensione i nuovi insediamenti aggiunti alla città esistente, cresciuti spontaneamente o pianificati, sono chiamati “quartieri”, non avendo una nuova parola a disposizione. È come se si fosse accettato che la città non fosse più una, ma fosse costituita da un centro antico e da una serie di aggiunte, comunemente chiamate “quartieri periferici”. Con il secondo inurbamento massiccio, alla fine del secondo conflitto mondiale, si sono aggiunti molti nuovi “quartieri” determinando uno slittamento verso l’esterno del perimetro del centro, che ha inglobato la prima crescita ed ha assunto come “periferie” i quartieri più recenti. (v. foto di Tor Vergata)
Nella geografia delle città si è anche perduto il confine fisico tra città e non città. Il limite tra città e non città si stempera in una nebulosa in cui le forme diventano sempre più simili e sempre meno riconoscibili, si susseguono incomprensibili addensamenti di edifici e vaste aree abbandonate. Una densità di manufatti variabile e apparentemente senza regola. Da molti secoli non c’è più un confine netto e riconoscibile. Gli unici confini riconoscibili sono le mura e i nuclei storici antichi. Anche quando rimangono solo i tracciati delle mura nei viali di circonvallazione e in qualche antica porta lasciata a futura memoria. I centri storici sono comunque le uniche parti delle città che nessuno si azzarda a definire “periferia”.
La Roma dell’Unità d’Italia ridisegnata dai piemontesi alla fine dell’Ottocento ha saputo attuare il suo progetto, sia in termini quantitativi (piani regolatori ben dimensionati) sia in termini qualitativi (la produzione di città compatta ma con una adeguata dotazione di spazi pubblici). La nascente borghesia impiegatizia e proto-industriale ha positivamente proseguito su questa linea nel primo decennio del Novecento. Il sindaco Ernesto Nathan ha portato all’approvazione il piano regolatore del 1909. Arrivano i primi quartieri operai localizzati nei pressi dei siti destinati alle attività produttive, ma connessi all’intera città da una rete tranviaria completa ed integrata.
Con il piano del 1909 finisce la buona urbanistica. Negli anni Venti, con il fascismo nascente, inizia una fase negativa i cui effetti condizionano pesantemente ancora la città. Prima sono state aumentate le densità fondiarie (dalle palazzine agli intensivi), poi è stato approvato nel 1931 un piano il cui completamento si è trascinato fino a pochi anni fa, senza forma urbana, senza disegno dei quartieri, che ha condizionato tutta l’urbanistica successiva.
Poi il vero disastro del dopoguerra. L’immigrazione dovuta all’inurbamento cambia la struttura economica, demografica e sociale della Capitale. Il piano regolatore approvato nel 1965, che doveva essere un nuovo modello, fallisce in pieno. È un modello utopico di forma urbana (fondata sul disegno del Sistema Direzionale Orientale), non riconosciuto dalle forze economiche della città, che propone un dimensionamento assolutamente oltre ogni ragionevole crescita. Non prevede linee di trasporto pubblico di massa né per abbattere il deficit di servizio della città esistente, né per servire la costellazione dei nuovi quartieri esistenti e previsti. Si limita a disegnare grandi viabilità mai realizzate. Un piano spacciato per moderno, che di moderno non aveva nulla. Un piano sostanzialmente non attuato. L’incapacità della politica di affrontare i temi di un nuovo piano ha determinato altri fenomeni che ancora oggi paghiamo. L’inurbamento travolgente degli anni tra il Cinquanta e il Settanta ha visto i politici di allora girare la testa per non guardare. In pochi anni si sono occupati migliaia di ettari agricoli con lottizzazioni abusive. Si è consentito di realizzare molte decine di migliaia di alloggi - si diceva costruiti “spontaneamente per necessità” - senza alcun controllo pubblico. La scelta politica di lasciar fare per incapacità di governo, che è stata comunque una scelta, ha condizionato e condiziona ancora gravemente tutta la città e tutta l’area metropolitana. Un lassismo inconcepibile ha fatto sì che un terzo degli abitanti di Roma, esclusi quelli della città storica, e cioè circa 800 mila, vivano nella città “spontanea”, costruita senza alcun piano. Tutti i romani hanno però poi pagato le opere di urbanizzazione più urgenti, le strade, l’acqua, le fognature, la luce, le scuole. I condoni hanno santificato questo disastro. L’inurbamento degli anni postbellici ha fatto crescere la città oltre le mura in tre modi, quantitativamente equivalenti. Con l’edilizia privata, con l’edilizia residenziale pubblica, con gli insediamenti abusivi. La “periferia” raccontata negli anni Settanta dalla letteratura e soprattutto dalla filmografia, ha documentato il caos della produzione edilizia di quegli anni. Mezza città era un immenso cantiere. Tutto genericamente “periferia”. Ma cosa si costruiva? Case, case e case. Lo Stato ha finanziato direttamente i quartieri di edilizia residenziale pubblica ed ha lasciato costruire i quartieri abusivi. I privati che avevano un patrimonio di aree edificabili hanno costruito anche loro i loro quartieri. Venivano fatte case per tutti. Chi voleva case di lusso aveva la risposta dal mercato privato. Chi voleva case di media qualità aveva risposta dall’edilizia residenziale pubblica, sia per l’acquisto sia per l’affitto. All’immigrazione più povera, ma capace di lavorare e costruire, la risposta l’ha data l’abusivismo. Non ci si è resi conto della città che si stava costruendo. Da una parte la città storica, dall’altra quartieri ipoteticamente autosufficienti e autoreferenziali, riferiti ai modelli assunti dogmaticamente dalla cultura urbanistica del Novecento, o insediamenti abusivi. Solo i quartieri delle lottizzazioni private e degli abusivi hanno rifiutato la monofunzionalità residenziale.
Gli uni si sono riferiti, anche se parzialmente, al mix funzionale della città storica per aumentare il livello di “urbanità” e quindi le possibilità di mercato. Gli altri, gli insediamenti abusivi, hanno attinto, negli impianti urbanistici, alla memoria dei paesi di provenienza. Il danno più grave, dal punto di vista della storia della città, lo hanno comunque prodotto i quartieri di edilizia residenziale pubblica, che sono ancora oggi, a distanza di due generazioni, ghetti quasi esclusivamente residenziali.
Questo immenso cantiere ha prodotto agglomerati di alloggi, ma non infrastrutture di trasporto, né servizi. Di qui i mali di base delle periferie nate inaccessibili e senza servizi. Il primo problema era la casa, gli altri problemi si sarebbero risolti dopo. La mancanza di programmazione e di pianificazione ha dispiegato i suoi effetti.
In circa 50 anni, dagli anni Sessanta agli anni 2010, le opere pubbliche essenziali si sono man mano realizzate; nei quartieri popolari dove le aree erano state lasciate libere dai piani attuativi e nelle lottizzazioni abusive sfruttando le aree e gli interstizi residuali.
Oggi le dotazioni dei servizi primari sono state assicurate pressoché ovunque e le piccole città sono pressoché completate e dotate dei servizi essenziali. Manca però ancora una rete di mobilità che garantisca la funzionalità degli spostamenti e la accessibilità. Mancano quindi sia un efficiente trasporto pubblico sia una rete di viabilità adeguata. Manca però soprattutto la qualità urbana.
La città più recente, anche quella abusiva, non è affetta da degrado edilizio. È costruita solidamente e ben mantenuta nelle parti private. È una città attiva, che si è arricchita nel tempo e che oggi ospita gran parte della nuova middle class romana. Gli ex abusivi hanno sfruttato appieno la rendita diffusa determinata dall’intervento pubblico di risanamento. Le Amministrazioni di sinistra, appena elette, sono state costrette a fare, in affanno, due interventi determinanti, ma non risolutivi. Il primo con il recupero urbanistico degli insediamenti ex abusivi (circa 80 microcittà), il secondo nel programmare e realizzare un imponente programma di edilizia residenziale pubblica, che non ha eguali in Italia per quantità e qualità (100 mila alloggi di edilizia pubblica e convenzionata), realizzati in pochi anni con un esemplare accordo tra direzione politica e imprenditori del mondo delle costruzioni. L’edilizia residenziale pubblica di quegli anni, realizzata nel mito del progresso tecnologico e della industrializzazione edilizia, sconta oggi tutti i limiti della velocità di realizzazione, dell’uso di materiali scadenti e della mancata previsione di accorgimenti per la sicurezza e il risparmio energetico. Sconta anche e soprattutto la mancata attenzione all’impatto sociale.
Nel frattempo si costruiva anche l’edilizia privata secondo le previsioni urbanistiche vigenti.
Tutte e tre le componenti, l’edilizia privata legale, l’edilizia residenziale pubblica e l’edilizia abusiva, non si inseriscono in alcuna rete di mobilità. Si appoggiano solo alla viabilità storica preesistente. Sono stati fatti solo pochi interventi parziali, per le Olimpiadi del 1960. Il Grande Raccordo Anulare è l’unica infrastruttura, in gran parte fuori piano, recepita mentre era già in costruzione. La città, che è stata soffocata dalla crescita nella mancanza di infrastrutture, non ha ripreso il tema dell’adeguamento infrastrutturale se non con il programma per le infrastrutture della mobilità, sul quale si sono basate le scelte di razionalizzazione del nuovo piano regolatore, oggi vigente, iniziato nel 1994 e approvato nel 2008.
Ma le infrastrutture costano e quelle iniziate si interrompono per mancanza di risorse. Le linee metropolitane A e B non sono state adeguate né prolungate. La linea metropolitana C ancora non è arrivata alla realizzazione della prima metà e già sono finiti i soldi. La linea D si è persa anche nella memoria. L’adeguamento delle infrastrutture a Roma diventa sempre più problematico man mano che diminuiscono le risorse economiche. Una prospettiva che può essere affrontata solo attivando nuove risorse e scegliendo con attenzione quello che si può fare con le risorse disponibili.
Il quadro dell’incapacità di governo si completa uscendo dal racconto della situazione del Comune di Roma Capitale per entrare in quella dell’area metropolitana. Le città e le loro economie non vivono da tempo nei limiti dei confini amministrativi tradizionali ma, di volta in volta, a seconda dei sistemi urbani di appartenenza, piccoli o grandi che siano, hanno necessità di integrazioni con i contesti territoriali per la programmazione e la gestione delle infrastrutture e dei servizi rispetto ai bacini d’utenza, oltre naturalmente alla necessità di condividere la difesa del territorio e la promozione del patrimonio ambientale e culturale. Non si vede ad oggi, per il governo della città metropolitana, una prospettiva di miglioramento.
Le “periferie” però non devono essere lette esclusivamente come un problema della città contemporanea; esse rappresentano anche una grande risorsa. Sono collegate a potenti reti internazionali che ne fanno una “nazione” delocalizzata. Molte periferie sono luoghi di fenomeni culturali ricchi e innovativi, di vita sociale densa e articolata, di pratiche eversive e insorgenti, di domande ed esercizi di cittadinanza che entrano in relazione con luoghi simili in tutte le parti del mondo. Le periferie, proprio perché distanti dai centri della città - intesi come centri soprattutto del potere economico e del potere politico-decisionale, che sempre più spesso convergono e si confondono - sono luoghi generatori di “gradiente urbano” perché è al loro interno che si formano e prendono corpo le strategie di sopravvivenza delle comunità senza potere che le abitano.
Promuovere la qualità della vita urbana e insieme il trasferimento di potere alle popolazioni marginali attraverso processi di trasformazione urbana può favorire la costruzione di una nuova socialità proprio a partire dai luoghi, contribuendo così a ricostruire il legame tra urbs e civitas. La città è una ed è un bene comune. Averlo dimenticato ha determinato il prodursi di insediamenti “non città” e “non luoghi”, che possono diventare banlieue, luoghi del bando. La grande opera che impegna tutti i Paesi europei è un piano generale di riqualificazione urbana e di ricostruzione della città a partire dai suoi luoghi “di scarto”, dalle periferie. Questa opera assicurerebbe sostenibilità ambientale, sviluppo qualificato, crescita del capitale sociale, miglioramento della qualità della vita e della qualità estetica delle città.
L’attivazione delle economie locali e delle energie sociali, la definizione di obiettivi radicali di sostenibilità ambientale,
- soprattutto per quanto riguarda trasporti, rifiuti e consumi energetici - e l’attenzione all’integrazione delle politiche settoriali sono aspetti necessari di ogni strategia di “salvezza” della città.
Sempre la vita delle città si è manifestata nell’evolversi della forma urbana complessiva, nel rinnovo di parti di essa o infine nel rinnovo continuo delle singole componenti minori (gli edifici), come avviene nelle cellule dei corpi viventi. Alcune città crescono, altre decrescono, altre sono apparentemente stabili nelle dimensioni demografiche e nel territorio occupato, ma rinnovano velocemente e consistentemente il loro corpo fisico.
I “cittadini” si identificano nel luogo e riconoscono la presenza delle generazioni precedenti in ogni monumento e in ogni casa. Le piccole città hanno assorbito senza gravi contraccolpi la prima rivoluzione industriale. Le distanze tra i nuovi opifici, le case e i servizi restavano contenute. I nuovi insediamenti produttivi, ai margini delle città storiche o in piccoli nuclei esterni, erano ancora parti integranti dei corpi urbani.
Le piccole città sono i gangli di una rete diffusa nel territorio, date spesso per spacciate, travolte dalle nuove economie, ma ancora vive e vitali. Quando si parla di città non si hanno dubbi, per lo meno in Italia, ad associare al termine “città” gli insediamenti storici e le autonomie comunali. La “forma” fisica delle città è riconoscibile per alcune convenzioni di base condivise, spesso rappresentate negli statuti delle singole città. Come si governava il rapporto tra pubblico e privato per la costruzione e la manutenzione della città era stabilito non solo dal diritto pubblico o privato, ma dalla condivisione di regole ormai desuete riguardanti la possibilità di collaborare alla realizzazione degli spazi pubblici costruendo edifici adiacenti, con le stesse altezze, con gli stessi materiali, anche se in quartieri con impianti urbani diversi a seconda dell’epoca storica di riferimento. Le strade e le piazze sono spazi pubblici realizzati con la partecipazione attiva di tutti i proprietari con i fronti sugli spazi stessi. Oggi la città ha dimenticato da tempo le regole di base che la storia ha impresso nei luoghi centrali delle città storiche. Gli orientamenti, gli allineamenti, gli assi prospettici, i fondali come luoghi per i grandi servizi urbani (landmark). Ha dimenticato anche le teorie compositive della forma e della figurazione del moderno. Il progetto della città è considerato un ostacolo alla espressione della libertà individuale. Gli edifici, pubblici o privati, residenze o servizi, vogliono vivere decontestualizzati con forma e vita proprie. Il modo di operare si è esteso anche al progetto dei quartieri di edilizia residenziale pubblica, anch’essi grandi oggetti posati a terra come le singole villette. Ci sono stati anche esempi di tentativi di costruire “città”, ma sostanzialmente falliti per essere stati il prodotto di una cultura tutta interna alla disciplina della urbanistica e della architettura. Una distanza fatale dalla cultura della città, che si sostanzia in progetti che nascono dalla condivisione e dalla costruzione collettiva.
Con l’introduzione delle basse densità, delle residenze individuali, delle edificazioni di edifici singoli su singoli lotti, la “villettopoli” ha vinto ed è stata definitivamente perduta la coscienza della qualità urbana. Solo dal secondo dopoguerra i centri storici sono tornati ad essere riconosciuti come patrimonio culturale comune.
Ma il resto delle città è tutto genericamente periferia. Da molto tempo la città moderna e contemporanea si è mangiata il centro. Non dal punto di vista qualitativo, ma incontestabilmente dal punto di vista quantitativo. Il sorpasso è da tempo avvenuto sia in termini di popolazione insediata sia in termini di suolo occupato.
Inoltre, superata una determinata soglia dimensionale, la città non è più città, ma metropoli, cioè un aggregato di più città con più centri e più parti storicizzate, ciascuna comunque identificabile nel magma della metropoli. Una metropoli è infatti un agglomerato di insediamenti urbani, ciascuno con un suo nome, un suo centro, una sua identità, una comunità che vive; è un insieme di luoghi di residenza, di commercio, di produzione, di servizi e di spazi collettivi.
A questo punto le periferie si toccano, si sfiorano, si compenetrano. Sono dentro la metropoli ed hanno confini interni che solo la storia dei luoghi e delle comunità può rintracciare. Anche il rapporto tra territorio urbanizzato ed aree agricole nella metropoli va oggi affrontato ad un’altra scala. Nella nebulosa delle aree più esterne vivono tantissime famiglie, per necessità o per scelta. Si mescolano attività agricole, attività complementari alle attività agricole, artigianato, piccole attività di servizio alla città, attività produttive nuove ed innovative in un sistema a bassissima densità. È difficile dire che si tratta di nuove “periferie”. Non sono più né città né campagna. Si tratta piuttosto di un nuovo modello insediativo che interessa tutte le aree periurbane delle metropoli e che ancora non ha trovato né comprensione, né, in conseguenza, un quadro di regole che ne consenta l’integrazione nel sistema complessivo economico e fisico dell’insediamento.