Abitare

In una grande città come Roma la questione dell’abitare ha prevalentemente coinciso con il problema della casa come bene primario. Fra gli anni Sessanta e Ottanta si sono registrati costanti e a tratti anche ingenti movimenti migratori di popolazione dalle regioni limitrofe. A volte in seguito a calamità naturali, più spesso spinti dalla possibilità di una vita migliore, agricoltori, pastori, operai e lavoratori proletari, soprattutto umbri e abbruzzesi, si sono trasformati nei manovali e nei muratori urbanizzati che hanno costruito la città contemporanea. Intere famiglie di neoinurbati hanno popolato la città, dapprima adattandosi a vivere nelle “coree”, le enormi baraccopoli che ospitavano fino a 300.000 persone agli inizi degli anni Sessanta, poi nelle borgate, costruendo le proprie abitazioni, spesso abusivamente, oppure ottenendo un alloggio popolare.

Impostando una tradizione di qualità, la cultura dell’edilizia pubblica ha portato alla creazione dell’Istituto Case Popolari, attivo già dagli inizi del secolo scorso, all’avvio del Piano Fanfani nel 1949 e all’istituzione del fondo Gescal destinato alla costruzione e alla assegnazione di case ai lavoratori. È il periodo migliore della casa popolare romana, quello che produce gli esempi prima della Garbatella poi del Tuscolano, per citare i più significativi. 

Negli anni Settanta, il Primo PEEP ha visto la sperimentazione delle utopie urbane dei grandi edifici-quartiere come Corviale e Tor Sapienza. Con il Secondo PEEP degli anni Ottanta, l’edilizia pubblica ha impostato i propri interventi su una qualità urbana più diffusa e sul quartiere a tipologie definite, a volte integrato in contesti preesistenti da recuperare. Questa azione ha coinvolto imprenditori e cooperative nella realizzazione dell’alloggio popolare ma ha anche mostrato i limiti di una struttura pubblica non più in grado di sostenerne l’impegno. È in questo periodo che emerge la crisi dello IACP, momento problematico che porterà alla sua trasformazione in ATER, organismo sempre più dedito alla gestione del patrimonio pubblico piuttosto che alla sua realizzazione. È la conclusione di un ciclo virtuoso e quasi eroico, spinto dalle lotte per la casa e dall’impegno politico della cittadinanza di sinistra, declino accompagnato da un progressivo disimpegno degli attori pubblici. 

Trent’anni di disinteresse per il problema della casa - problema d’altra parte oggettivamente meno urgente negli anni Novanta che in passato - ci conducono a un bilancio attuale tutt’altro che lineare. Innanzitutto la realizzazione dell’alloggio e del quartiere è passata acriticamente dal pubblico al privato, in un meccanismo di mercato che ne ha privilegiato - come nell’industria automobilistica - l’aspetto di bene di lusso, l’optional, la qualità apparente, impostando una offerta pensata per alzare il prezzo dell’abitazione al metro quadro, non certo rivolta alle fasce meno agiate. 

Ne hanno sofferto i più deboli, gli immigrati recenti e le categorie svantaggiate colpite dalla crisi economica degli ultimi anni. Le stime elaborate nel 2009 dal CRESME per conto di Roma Capitale individuano il “segmento debole” della domanda a Roma in 52.800 alloggi. Sebbene una minoranza all’interno di una popolazione censita di circa 2,8 milioni di persone, 5.000 individui sono senza tetto o con sistemazione precaria, 36.600 famiglie vivono in condizioni di insostenibilità del canone d’affitto, 4.400 studenti non godono di un sufficiente sostegno economico, 2.600 lavoratori fuori sede e 4.200 famiglie hanno difficoltà a sostenere le rate del mutuo della propria abitazione.

Il numero di alloggi da considerare per la determinazione della domanda attuale di edilizia residenziale pubblica e di housing sociale è stato definito dalle autorità municipali in 25.700 alloggi. Di questi circa 6.000 devono essere destinati a ERP (Edilizia Residenziale Pubblica), tenuto conto delle politiche per la casa già in atto, come il contributo comunale per l’affitto, e delle edificazioni in fase attuativa.

Poche, tuttavia, e molto discusse sono state in questi anni le politiche messe in atto dall’Amministrazione. A fronte dei 25.000 alloggi sociali previsti dal Piano Regolatore Generale approvato nel 2008 non vi sono state che pochissime realizzazioni. Ha invece suscitato aspra discussione il bando emanato nel 2009 dalla Giunta Alemanno per il reperimento di nuove aree destinate all’housing sociale. Il bando prevedeva la possibilità di costruire nuovi interventi in zone fino a quel momento vincolate, come alcune parti dell’Agro Romano. Nel coro di proteste è emersa la voce dell’INU Lazio che ne ha criticato duramente i criteri: la disponibilità a costruire in aree agricole, la eccessiva distanza consentita fra residenze e fermate del trasporto pubblico, il disinteresse per l’attuazione dei 35 Piani di Zona per l’edilizia residenziale pubblica già approvati. Così la oggettiva necessità di edilizia sociale è apparsa a molti come un pretesto per stravolgere il Piano Regolatore promettendo ai proprietari dei terreni nuove rendite fondiarie. 

D’altro canto, come accennato, non è mancata in questi anni la costruzione di nuovi alloggi, quanto di residenze economiche in grado di rispondere anche alle necessità delle fasce più deboli del mercato. La quota di alloggi invenduti testimonia i limiti di operazioni speculative dirette da società immobiliari ben orientate verso la realizzazione del massimo profitto attraverso il preconfezionamento di un prodotto edilizio destinato a piccoli risparmiatori o giovani coppie. La conseguenza è uno squilibrio dell’offerta in certa misura ricaduto contro la stessa imprenditoria edilizia.

Secondo il rapporto Ambiente Italia 2011 di Legambiente la quota di alloggi inutilizzati ammonta a 245.000. Si tratteggia cioè il quadro di un mercato in notevole sofferenza, per il quale le previsioni non danno adito a ottimismo, anche a fronte di numerosi nuovi investimenti e operazioni immobiliari come quelle operate sulle Centralità metropolitane previste dal PRG. Nel 2013 l’Istituto Nazionale di Urbanistica, il Centre for Economic and International Studies dell’Università di Tor Vergata e la società Provinciattiva Spa hanno pubblicato uno studio che misura la rendita fondiaria a Roma in seguito ad alcune grandi trasformazioni urbane. I casi presi in esame - gli interventi sulle centralità di Bufalotta, Lunghezza e sul polo tecnologico Tiburtino - hanno evidenziato una plusvalenza complessiva compresa fra il 53% e il 57% del valore finale del costruito. Al contrario, gli oneri di urbanizzazione - i quali, insieme alle cessioni di aree, costituiscono la parte più rilevante del contributo economico alla realizzazione della città pubblica erogato dai progetti di trasformazione - rappresentano una quota piuttosto esigua che in media non ne supera il 7%. Il saldo mostra quanto costruire sia ancora estremamente conveniente sebbene il valore del costruito non venga facilmente monetizzato, nella misura in cui ci si scontra con le difficoltà di commercializzazione del prodotto immobiliare. A ciò va sommato il prezzo della ordinaria insufficienza del profitto pubblico quantificabile in servizi, qualità urbana e housing sociale. Per quest’ultimo è infatti necessaria una regia politica fino a ora mancata o poco incisiva e sofferente di una strumentazione urbanistica farraginosa e di una cronica carenza di fondi. Il caso dei Programmi integrati di intervento - PRINT è emblematico di tale condizione. Salvo rari casi i PRINT, pensati per la riqualificazione delle zone periferiche frammentarie, sono infatti rimasti perimetri sulla carta molto difficili da trasformare in azioni concrete sul territorio. 

Secondo l’Assessore alla Trasformazione Urbana, Giovanni Caudo, un reale ostacolo alla realizzazione dei quartieri di edilizia sociale è l’attuale assetto degli schemi di convenzione che disciplinano i rapporti fra Roma Capitale e imprenditoria privata, al fine della previsione ed esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Il nuovo schema di convenzione studiato dall’Assessorato e in corso di approvazione potrebbe permettere lo sblocco di operazioni di rigenerazione e trasformazione urbana, anche con fini di housing sociale.

Daniel Modigliani: Come combattere il disagio abitativo

Architetto e Urbanista, Commissario Straordinario Ater

“Abbiamo avuto in eredità la città più bella del mondo, dobbiamo lavorare perché lo rimanga. è un impegno gravoso: ci sono molti modi, uno è avere un atteggiamento corretto verso la storia ed evitare di manomettere quello che c’è stato lasciato, senza però cadere nella trappola della conservazione immobile, perché la città è viva. Bisogna fare in modo che ogni manutenzione e singolo permesso di costruzione siano fatti sempre pensando alla qualità della città e al suo miglioramento”. A parlare è Daniel Modigliani, architetto e urbanista, che conosce la trama della città come pochi dopo 20 anni al Comune di Roma a lavorare sulla riqualificazione della città, fino ad arrivare alla direzione dell’ufficio pianificazione. Dallo scorso anno è il commissario straordinario dell’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale del Comune di Roma (Ater). In un periodo di forte difficoltà finanziaria per gli enti locali quale ruolo giocano i privati? La scarsità di investimenti pubblici non è condizionante, bisogna fare il meglio con il poco. Il pubblico deve fare scelte per ottenere ciò che vuole, senza condizionamenti ma valutando l’incidenza degli interventi privati. La città non si fa e non si è mai fatta solo con le opere pubbliche, sono i cittadini insieme che ne decidono il destino facendo tanto le opere pubbliche che quelle private, secondo regole condivise. La stragrande maggioranza dei soldi investiti sono dei privati, quindi l’accordo è fondamentale e serve una visione con orizzonte temporale lungo. Di recente però ci sono stati alcuni progetti imprenditoriali realizzati in situazione di emergenza che hanno avuto dubbi effetti sia dal punto di vista economico che per la città. L’emergenza è sempre cattiva consigliera, torniamo all’ordinario. Com’è la situazione dell’edilizia residenziale romana? Ater possiede il 5% degli alloggi a Roma e il Comune del 3,5%, l’edilizia residenziale pubblica è quindi circa l’8%: si potrebbe pensare a un uso più incisivo, ma per la politica è un problema residuale. Ater vive di canoni e di vendite ed è strutturalmente in deficit perché le entrate non coprono le esigenze di manutenzione straordinaria per questi 50 mila alloggi. Abbiamo aperto centinaia di cantieri ma ormai sono tutte situazioni di emergenza. Servirebbe un piano di vendite per pagare le manutenzioni e rimettere in sesto i conti e poi una nuova legge che consenta l’equilibrio economico che oggi non c’è. Ater gestisce 50 mila alloggi ma in città c’è un forte disagio abitativo, avete in programma nuove costruzioni? Ater ha fatto un programma per realizzare nuovi alloggi ma senza risorse non può essere realizzato. Inoltre l’ultimo decreto Lupi prevede che le priorità siano di recuperare il patrimonio esistente, acquistare invenduto sul mercato che ora costa meno rispetto a costruire e, solo in ultimo se proprio ci sono avanzi, realizzare nuovi alloggi. Ora noi stiamo occupandoci intensamente di recuperare gli esistenti possibilmente con azioni incisive nel metodo, ovvero avviando concorsi e cercando di garantire l’effettiva realizzabilità degli interventi. Per il recupero del Corviale la Regione ci ha dato la possibilità di fare un concorso internazionale e ha anche finanziato una prima fase dei lavori con 19 milioni di euro, mentre per il Tiburtino Terzo c’è un concorso già approvato che potrebbe andare in gara domani se avessimo le risorse. Inoltre con una nuova legge sulla gestione che snellisca le pratiche e i passaggi si potrebbe incrementare la rotazione normale, che ora garantisce circa 500 alloggi all’anno. Le stime però dicono che servono 25 mila nuovi alloggi. Una vera ricognizione della domanda attualmente non c’è, le graduatorie sono vecchie di anni e 25 mila richiedenti non sono credibili, tanto che oggi noi abbiamo alloggi di tagli decisi negli anni ‘80, tra 70 e 80 metri quadri, che non trovano rispondenza perché la domanda è di single e giovani coppie. Il cambio del numero di componenti famiglie negli ultimi 20 anni è stato drastico: prima erano 3,5, ora siamo a 2,2. La gente chiede case piccole, ma noi abbiamo case grandi realizzate per famiglie numerose. Con la politica dei frazionamenti potremmo guadagnare almeno il 20-30% degli alloggi. Per questo non ci sono ostacoli normativi e dovrebbe trovare alleanza con gli utenti perché è anche interesse delle persone sole che gli si riduca l’appartamento per abbassare il canone e le utenze. Ma il tema non è stato affrontato, sarebbe facile se tutti fossero d’accordo, ci fosse qualche euro e una precisa pianificazione. In questo modo potremmo veramente migliorare l’offerta che ora è legata solo a un ricambio fisiologico o a una molto limitata realizzazione di nuovo, Ater ha un programma per mille alloggi in un quadriennio, una goccia nel mare se anche ci fossero risorse. L’housing sociale con la partecipazione dei privati può servire? Nei fatti sarebbe possibile, ma in realtà non ci siamo riusciti. Quando siamo andati nel concreto della fattibilità dei piani ci siamo trovati di fronte a situazioni inaccettabili: per rendere economico il procedimento il pubblico deve dare gratis le aree e per la legge non possiamo farlo. Dovremmo tornare alla filosofia dell’edilizia agevolata degli anni di Fanfani che ha agito su facilitazioni finanziarie e per l’assegnazione delle aree. Era un disegno che permetteva alle famiglie di investire i propri risparmi sapendo che sarebbero diventati proprietari, ma c’era più disponibilità dello Stato: ora non ci sono più le aree a prezzi bassi e nemmeno le risorse per aiutare i finanziamenti. Si potrebbe fare leva su canoni maggiori per far partire questi progetti? C’è in effetti una fascia grigia che non può pagare un canone di mercato ma ne può pagare uno che almeno remunera il capitale investito. Oggi il canone minimo è di 7,75 euro mese e il canone massimo di 170 euro mese, non ci paghiamo neanche le raccomandate. Stiamo sperimentando un canone maggiore con 95 alloggi che abbiamo acquistato da due cooperative: gli inquilini pagano tra 400 e 500 euro, ma con la prospettiva che l’abitazione diventerà loro. è necessario rimettere in moto un meccanismo per rispondere a questa fascia grigia tra poveri e ricchi, ma per il momento le sperimentazioni di edilizia sociale in tutta Italia sono poco significative per quantità, anche se molto significative per la qualità sia della vita sociale che dell’innovazione tecnologica. Sono comunque insufficienti rispetto alla domanda sociale cui bisogna rispondere, serve ripensamento politico. Ha parlato di un bando per il Corviale, con quali tempi? Ater con l’Ordine degli Architetti di Roma sta preparando il concorso che sarà bandito gennaio, poi ci sarà il tempo per farlo. Doveva essere solo un concorso di idee ma la Regione ha finanziato anche le opere, che saranno quindi realizzate. Nel frattempo abbiamo fatto partire tre milioni di euro di manutenzione e 10,5 milioni per il cambio di destinazione d’uso del quarto piano. Mentre si fanno i lavori, quindi, si realizza il concorso, un bel segnale di presenza che dovrebbe aiutarci a risolvere anche i problemi di legalità e sicurezza che ci sono. Mantenendo i cantieri per lungo tempo si cerca di ottenere quel controllo sociale che è l’unica garanzia che le cose fatte durino.