Margherita Guccione. Architetto, Direttore MAXXI Architettura - Museo nazionale delle arti del XXI secolo
AR MAGAZINE - Nel 1948 la Casa editrice Einaudi pubblica il libro di Bruno Zevi Saper vedere l’architettura. Zevi elabora un saggio fondamentale sull’interpretazione spaziale dell’architettura e rilegge la storia in un continuo confronto linguistico, individuando proprio nell’educazione allo spazio la chiave per comprendere il contemporaneo. Qual è secondo te l’importanza di questo scritto del 1948 e qual è - in generale - la portata storica del pensiero zeviano?
Margherita Guccione - Per riconoscere e capire quanto sia attuale il pensiero di Bruno Zevi, a partire da Saper vedere l’architettura ma anche attraverso la sua testimonianza militante, abbiamo pensato di realizzare qui al MAXXI la grande mostra Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell’architettura italiana 1944-2000, in collaborazione con la Fondazione Bruno Zevi presieduta da Adachiara Zevi. Non si tratta di una celebrazione, anche se chiaramente fa parte delle manifestazioni culturali del 2018 per il centenario della nascita di Zevi promosse dal Ministero dei beni e delle attività culturali e dalla Fondazione Zevi. Questa mostra vuole riaccendere i riflettori su di un personaggio che ha dato un fondamentale contributo alla storia dell’architettura, alla storia della cultura italiana, con un modo nuovo e antiaccademico di affrontare la storia, rileggendo e confrontando l’opera di protagonisti antichi e moderni. Nella mostra abbiamo fatto un accenno a questo tema, a come Zevi si relaziona con la storia, come mette ad esempio in relazione Filippo Brunelleschi e Biagio Rossetti, come riflette sull’architettura dell’antichità e del moderno. In questa direzione penso che sia molto utile oggi ripercorrere la vita di Bruno Zevi, perché vita e pensiero si intrecciano indissolubilmente.
AR M - Per Bruno Zevi l’approccio multidisciplinare è sempre stato un valore fondamentale per comprendere e descrivere l’architettura. La cultura fotografico cinematografica - ad esempio - è per Zevi importante perché riesce a descrivere bene lo spazio e il linguaggio, analizzando in modo immediato l’estetica della modernità. Questo concetto emerge in Saper vedere l’architettura. Cosa ne pensi?
M G - Trovo che sia l’essenza anche del nostro lavoro: essere allo stesso tempo un museo di arte e di architettura è figlio di questo approccio multidisciplinare.
Penso alle trasmissioni televisive che sono state mostrate anche durante il vostro convegno Saper vedere l’architettura. Eredità culturale, attualità critica di Bruno Zevi, il 14 giugno 2018 alla Casa dell’Architettura di Roma: Zevi ci raccontava Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini muovendosi nello spazio, facendoci capire che lo spazio non può essere imbrigliato in una immagine estatica e conclusa (naturalmente lo spazio barocco si presta molto bene a questo ragionamento) ma che l’essenza spaziale è in continuo divenire (trasmissione RAI ‘Io e … : Bruno Zevi e Sant’Ivo alla Sapienza’, di Stefano Roncoroni, 1973, 20' - Il filmato fu prodotto per la trasmissione Rai ‘Io e …’ ideata da Anna Zanoli - Ndr).
Per cui lo strumento filmico è forse per noi architetti contemporanei scontato, oggi, ma allora questo suo utilizzo e questa sua affermazione erano all’avanguardia. Zevi aveva visto come il mezzo filmico permetteva di parlare di architettura in senso più completo.
AR M - Torniamo alla mostra che avete realizzato al MAXXI nell’anno in cui ricorre, come sottolineavi, il centenario della nascita di Bruno Zevi, uno dei più grandi pensatori italiani del ’900, architetto, storico e critico dell’architettura. Puoi parlarci dell’allestimento e dei contenuti critici?
M G - Sì, direi che si tratta di una mostra sui generis perché ha l’ambizione di esporre il pensiero critico di un grande autore, facendo delle scelte curatoriali molto forti, lavorando con una selezione serrata di architetti amati da Zevi, scegliendo un’opera per ciascun architetto, intrecciando tale selezione proprio con la vita di Bruno Zevi, una vita avventurosa, epica. Nel ’900 ci sono stati autori capaci di attraversare la storia da protagonisti in tutti i momenti, dall’antifascismo alle grandi battaglie degli anni ’70 per i diritti. Dunque un obiettivo ambizioso che credo abbiamo in gran parte centrato. Certo, una mostra è di per sé incompleta. Il pensiero di Zevi, la sua importanza, sta anche nel suo essere sempre presente, produttivo, irriverente, antiaccademico in tutti i settori che ha attraversato: un continuum di cultura e battaglie civili. Credo quindi che la mostra abbia il merito di far venire voglia di rileggere Zevi e di ritrovare i suoi architetti, ce ne sono molti famosissimi, ma ci sono anche delle riscoperte interessanti: da Sacripanti alla ‘casa albero’ di Perugini, allo studio Asse. È stata una mostra di ricerca che ha visto molte tensioni e battaglie nel team dei curatori, nel confronto con me e con Adachiara Zevi. Ma è stata una bella operazione, dal nostro punto di vista, un’ottima operazione anche dal punto di vista del successo di pubblico. Tutti noi sappiamo bene che le mostre di architettura hanno uno specialismo che certamente trova a Roma un pubblico abbastanza vasto, ma che non sempre riesce poi ad allargare gli orizzonti a un pubblico più generalista. In questo caso, dai nostri dati e dai nostri questionari di verifica del gradimento del pubblico, abbiamo visto che questa mostra, proprio perché non parla solo di architettura ma parla anche di cultura, è una mostra che ha avuto un pubblico molto ampio.
AR M - Il fatto interessante è che non si tratta solamente di una mostra: questa esposizione sembra un manifesto che ripercorre, come dicevi, la vita di Bruno Zevi, svelando e analizzando gli architetti da lui amati e recensiti in oltre 50 anni di attività operativa, critica e militante. Un esercizio storico, tra progetti, arte, politica, cultura, ricco di materiali originali, con lo scopo di riscoprire l’eredità culturale di Zevi. Unire l’impegno culturale, la storia e la critica dell’architettura, l’impegno civile: questa l’essenza fondamentale nella visione zeviana. Sei d’accordo?
M G - Sì, penso che sia fondamentale. Anche questo ci pare oggi come un dato quasi acquisito: l’interesse pubblico dell’architettura, il fatto che l’architettura sia importante per la vita di tutti, non soltanto per gli architetti. L’architettura disegna il paesaggio dove vivono le persone. Oggi si parla di una Legge per l’architettura, ci sono molti temi in ballo, perché l’architettura è un bene comune. Ecco, tutto questo nel lavoro di Zevi c’era già e lo ritroviamo nei suoi scritti, lo ritroviamo nella bellissima pubblicistica da lui promossa, curata, scritta. Quindi Zevi era sicuramente uno di quei personaggi che avevano la capacità di guardare avanti e soprattutto di essere fuori dal coro, di essere fuori da qualsiasi stereotipo. Questo aspetto deve essere secondo me ancora valutato fino in fondo, in futuro. Le scelte della mostra sono partite comunque dalla necessità di selezionare. Non si poteva fare un repertorio di cronache e storia, riportare tutti i documenti e gli architetti di Zevi. Sicuramente ci sono degli offesi, dei non citati, questo fa parte della vita. Però credo che la mostra ci spinga a guardare lontano, vedendo anche quello che abbiamo sotto agli occhi e che talvolta non siamo capaci di apprezzare.
AR M - Scendiamo nel dettaglio progettuale. L’allestimento è fluido ma allo stesso tempo rigoroso, non decostruito, dinamico quanto basta per rimanere in equilibrio. È proprio questa dicotomia tra pensiero zeviano e linguaggio espositivo non decostruzionista, privo di slanci formali e sostanzialmente privo di controarchitettura, a caratterizzare questa mostra. Sei d’accordo con questa analisi?
M G - In questo caso, come avviene spesso al MAXXI, il problema dell’allestimento è il confronto con lo spazio, con le gallerie del museo: un luogo molto particolare, con una dimensione spaziale importante che in genere mal si sposa con le mostre di architettura, con i disegni, i modelli eccetera. Per cui il salto dimensionale è enorme. L’allestimento è curato da Silvia La Pergola, nel team degli architetti del MAXXI, dunque un allestimento interno. In qualche altro caso, in passato, siamo ricorsi a progetti di allestimento redatti da esterni: cito ad esempio il caso di Umberto Riva che ha fatto l’allestimento della mostra su Le Corbusier (L’Italia di Le Corbusier, Maxxi, Roma, 2012 - Ndr). In questo caso abbiamo invece scelto di lavorare con il nostro team che conosce molto bene la qualità e la problematicità degli spazi del nostro museo. L’idea che ci è sembrata vincente perché rigorosa ma allo stesso tempo fluida - come tu dici - è quella di alludere a un work in progress, a un pensiero che avviene spazialmente in uno studio. Dunque l’allestimento cita questi studi di architettura di allora, ad esempio lo studio di uno storico degli anni ’50 e ’60, con questi pannelli, queste librerie, questi tavoli: è un dispositivo light che ha permesso poi di accogliere materiali diversi.
AR M - Ci sono due livelli strutturali per quanto riguarda l’allestimento. Da una parte il nastro rosso che racconta la vita di Zevi, dall’altro gli spazi espositivi che invece raccontano gli architetti di Zevi. Com’è nata questa idea?
M G - Nella biografia di Zevi non era possibile separare il suo ruolo di critico dal suo ruolo pubblico, di militante. Per questo abbiamo pensato che fosse più interessante intrecciare questi aspetti, anche spingendo il visitatore a costruirsi un proprio percorso, non proponendogli una lettura cronologica, statica, progressiva, ma abbiamo voluto mescolare le carte ...
AR M - Con continui salti cronologici per gli architetti di Zevi …
M G - Sì, gli architetti di Zevi sono in ordine alfabetico. Questo produce interattività nel visitatore che credo sia stato molto più utile rispetto a una mostra spalmata in modo banale.
AR M - Pensiero zeviano. Per Zevi la crisi è un valore. Ma non c’è crisi in questa mostra che espone l’evoluzione della storia procedendo senza particolari fratture, senza strappi. “Zevi contro - Zevi Against” si legge nell’ultimo ambiente dell’esposizione al MAXXI. Ma “Zevi contro”, tutto sommato, emerge poco dal carattere generale di questo percorso. La scritta “Esporre la storia” - che campeggia davanti alla scritta “Zevi Against” sempre nell’ultimo ambiente espositivo della mostra - sembra vincere sulla controstoria e sulla poetica della frammentazione, sulla libertà della forma, evitando quasi del tutto i linguaggi progettuali radicalmente decostruttivisti, salvo qualche eccezione come nel caso del Centro per lo studio e lo sviluppo delle minoranze etniche albanesi a San Giorgio Albanese (Cosenza), opera di Marcello Guido del 1990-95. Come mai questa scelta?
M G - Penso che il fascino di queste operazioni di ricerca - e non di celebrazione del personaggio - sia proprio nell’essere opere aperte, per citare un altro grande personaggio del ’900 (Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, 1962 - Ndr). Sicuramente questo aspetto poteva essere accentuato. La mostra nasce anche da un bilanciamento di esigenze tra curatori e Fondazione Zevi, ci sono quindi molti aspetti da prendere in considerazione. Forse questa domanda la farei direttamente ai curatori.
AR M - Numerosi sono gli architetti amati da Zevi e per questo pubblicati sulle riviste da lui dirette e sui libri da lui scritti: da Iginio Cappai e Pietro Mainardis a Luigi Figini e Gino Pollini; da Luigi Carlo Daneri a Giancarlo De Carlo; da Marcello D’Olivo a Marcello Guido; da Giovanni Michelucci a Paolo Soleri; da Maurizio Sacripanti ad Aldo Loris Rossi; da Giuseppe Perugini a Luigi Pellegrin; e poi Riccardo Morandi, Sergio Musmeci e così via, per una ricostruzione dell’architettura italiana dal 1944 al 2000. Con quale criterio avete selezionato il materiale in sinergia con la Fondazione Zevi?
M G - Il lavoro è stato di selezione progressiva. Si è partiti da un elenco largo, ma poi la mostra doveva avere una dimensione ben definita e quindi abbiamo cominciato a stringere. Si è fatta anche una verifica di fattibilità perché - come avete visto - sono tutti materiali originali, disegni, modelli. Siamo dunque arrivati alla selezione del materiale con un dispositivo rigido: un’opera per ciascun architetto. Anche questo è stato oggetto di discussione approfondita: sicuramente molte di queste personalità, forse quasi tutte meritavano un’esposizione più ampia del loro lavoro ma abbiamo infine scelto la selezione dell’opera per ciascun architetto. Insomma si tratta di un lavoro complesso dove una delle problematiche principali (perché una mostra è fatta di prodotti fisici, materiali) è stata quella di avere la disponibilità del materiale in prestito, tenendo comunque conto del fatto che molte delle opere che sono state esposte fanno parte della collezione MAXXI Architettura. Anzi, colgo l’occasione per dire che questa mostra ci ha molto aiutati nel lavoro di analisi e critica del panorama architettonico italiano, moderno e contemporaneo: noi abbiamo la missione di presentarne la storia e anche le personalità più significative. Quindi una mostra come questa ci fa capire anche come dobbiamo sforzarci di raccogliere il lavoro degli architetti che non abbiamo al MAXXI. Ad esempio sono molto contenta di aver acquisito ultimamente alcuni progetti di Luigi Pellegrin, o di aver prestato attenzione all’opera di Maurizio Sacripanti e di aver recuperato alcuni materiali proprio di Sacripanti. Adesso, tornando ad alcuni degli architetti della mostra che tu citavi: ad esempio non abbiamo nulla di Daneri, abbiamo poco di De Carlo, solo un progetto per Beirut. Alcuni di questi grandi autori hanno i loro archivi conservati in importanti istituzioni pubbliche. Ad esempio Riccardo Morandi è all’Archivio centrale della Stato con cui siamo legati da un collegamento istituzionale che ci permette di scambiarci i materiali.
AR M - Gli archivi di architettura sono quindi fondamentali per ricostruire un percorso storico critico e per guardare al futuro?
M G - Sì. Questa è proprio la scelta che abbiamo fatto quando abbiamo cominciato a lavorare per il MAXXI. La tentazione poteva essere quella, per altro seguita da altri musei molto importanti nel mondo, di considerare l’architettura alla stregua di un’opera d’arte accontentandoci di prendere solo un bel disegno, ad esempio di Renzo Piano, o di Carlo Scarpa o di Giovanni Michelucci …
AR M - Dunque avete fatto una scelta strutturale …
M G - Sì, la scelta è stata quella di tentare di raccogliere e di avere la disponibilità di interi archivi o, laddove non fosse possibile, di avere interi progetti e di rimandare a un secondo momento la selezione di ciò che è più o meno significativo. Anzi, noi pensiamo che tutto sia utile e che tutto serva per capire la complessità dei processi progettuali e i contesti dove questi si inseriscono. Quindi la scelta delle collezioni di architettura è proprio quella di lavorare prevalentemente per archivi. Cito anche il caso di Aldo Rossi: noi abbiamo una parte consistente del suo archivio che corrisponde al suo studio privato, legato alla progettazione esecutiva, studio dove lui faceva i suoi schizzi, i suoi pensieri progettuali. Altri soggetti conservano altri suoi progetti. Ma questo materiale di Rossi che noi abbiamo acquisito ci dà una possibilità di lettura che va molto al di là del bel disegno che puoi accostare all’opera di un artista.
AR M - La rivista L’architettura. Cronache e storia; i libri di Zevi, le sue pubblicazioni, gli editoriali, i video sul contemporaneo e sulla storia dell’architettura, i suoi interventi nelle trasmissioni Tv, dalle riflessioni su Sant’Ivo alla Sapienza per la Rai alla partecipazione ai talk show televisivi; poi la politica. Tutto questo emerge nella mostra. Un pensiero multiforme, vivo e ancora attuale?
M G - Assolutamente sì. Zevi è stato il primo a capire il potere dei media e a intervenire direttamente. Il canale televisivo Teleroma 56 è stato inventato da lui. All’inizio le trasmissioni andavano in onda da casa sua a via Nomentana. Tra l’altro, in questa grande operazione di ricerca della mostra, nella quale alcune cose non sono andate a buon fine, noi avevamo cercato proprio l’archivio di Teleroma 56 che purtroppo si è perso nei diversi passaggi di proprietà. Questo per dire che l’interdisciplinarità è fondamentale, come è fondamentale l’importanza del linguaggio, il linguaggio della comunicazione. Se pensiamo anche alla sua rubrica su L’Espresso e dunque al linguaggio che Zevi usava quando scriveva su di un magazine popolare, capiamo bene questo concetto: Zevi era chiaro, come a dire che se hai le idee chiare non hai bisogno di una scrittura complicata e accademica.
AR M - Nel convegno di Modena del 1997, Bruno Zevi ha lanciato per la prima volta il concetto di “Paesaggistica e linguaggio grado zero dell’architettura”. Una ricerca che rimette in discussione tutto attraverso il grado zero, per ripensare architettura e paesaggio. Non pensi che questa ultima visione della critica zeviana sia tra le più importanti che Zevi ci ha lasciato in eredità?
M G - Nel convegno di Modena, Zevi ha guardato avanti, ha prefigurato il grado zero dell’architettura. Anche questo è un tema sul quale avremmo potuto indagare. Abbiamo fatto delle scelte, ma ciò non toglie che il museo possa ritornare su questa tematica con approfondimenti in tale direzione. In ogni caso voglio aggiungere che, oltre a una selezione di video su Bruno Zevi - con Zevi protagonista- che abbiamo preparato per la nostra video gallery del MAXXI, abbiamo anche in mente con la Fondazione Zevi, con Adachiara e Luca Zevi, di realizzare degli importanti approfondimenti sulle pubblicazioni zeviane. Luca Zevi sta difatti curando la ripubblicazione degli scritti di Bruno Zevi e questo sarà un tema che ci accompagnerà nei prossimi mesi.
Intervista a cura di: Marco Maria Sambo
In Copertina:
Gli architetti di Zevi. Storia e controstoria dell'architettura italiana 1944-2000
Mostra - MAXXI, Museo nazionale delle arti del XXI secolo
Dal 25 aprile al 23 settembre 2018
Ph Vincenzo Labellarte