Il recupero a Roma

Censire Roma e la sua area urbana e definirne lo stato dell’arte rispetto al tema del recupero. Un’operazione complessa per via della natura eterogenea dei luoghi e delle aree in oggetto, ma al tempo stesso fondamentale per ricavare un quadro generale della situazione in essere e delle sue potenzialità. Aree che rappresentano cesure e ferite aperte nel territorio, ma che possono e devono diventare in primis un volano di crescita e rinascita dal punto di vista urbano, economico e sociale. Presupposti necessari la volontà e la capacità di progettare avendo in mente la città nel suo profilo tanto sfaccettato quanto unitario, le necessità della sua popolazione e le possibili vocazioni di questi frammenti di spazio urbano.

Roma è ricca di zone abbandonate, dismesse e sottoutilizzate, di proprietà pubblica e privata, che necessiterebbero di una profonda operazione di recupero per ritornare a essere “di valore” per l’utenza, pubblica e non. Il nostro tentativo è quello di darne una panoramica generale, andando ad analizzare, uno dopo l’altro, alcune delle principali aree per le quali si prevedono o auspicano operazioni di riqualificazione, a diverse scale, da qui ai prossimi anni. 

Le ex aree militari di Roma sono al centro di un programma di valorizzazione e alienazione frutto di una cooperazione tra Campidoglio e Ministero della Difesa. Il Comune di Roma si è infatti avvalso della riforma sul Federalismo Demaniale, varata dal Governo Monti, per rientrare in possesso di un patrimonio infrastrutturale da studiare, riqualificare e rimettere a disposizione della comunità. Un processo strutturato in più momenti tra il 2010, anno in cui è stato firmato il primo protocollo d’intesa, e l’agosto 2014, quando si è registrato il passaggio ufficiale “dell’ultima tranche” a favore di Roma Capitale, ritrovatasi gradualmente nelle mani 15 strutture militari, che contano su una volumetria complessiva di circa 1.500.000 mc e su oltre 500.000 mq di Superficie Utile Lorda, con una stima economica - a seguito della valorizzazione - pari a circa 2,5 miliardi di euro.

Se da una parte questa notizia è stata accolta dalle figure istituzionali come una vittoria d’interesse generale, sintomatica di un’ottima sinergia tra Enti locali e Stato, dall’altra ha invece ridestato l’attenzione di quei cittadini e quelle associazioni più attenti alla salvaguardia della res pubblica. Le preoccupazioni sono di natura molteplice. Il protocollo, per certi versi, appare più una misura “salvagente” per ridare ossigeno al bilancio statale, piuttosto che una riforma strutturale, in grado di riconsegnare ai comuni un portafoglio immobiliare dall’elevato potenziale per mezzo di un’attenta e oculata riqualificazione. Spaventa inoltre la possibilità di “spostare” le cubature previste da una zona all’altra, magari sottraendole a quei comparti dove sono programmate ma inattuabili, con il rischio di stravolgere il contesto urbano in cui sono inserite. Infine, il fatto che questi 15 edifici rientrino di prassi in un fondo immobiliare della Difesa, prevede una ripartizione di destinazioni d’uso dove sono ben chiare e precise le quote riservate a fini residenziali e commerciali (30% a testa) mentre alberga un certo alone di incertezza rispetto all’ultima “fetta” libera, definita “a destinazione flessibile”, con un quinto di essa a favore dei servizi comunali e dell’edilizia sociale.

A oggi, dunque, la situazione pare ancora poco chiara. C’è molta incertezza rispetto alle garanzie di qualità urbana e architettura delle realizzazioni nelle procedure di valorizzazione.

La situazione di profondo disavanzo ha imposto ad ATAC di impostare un piano industriale strutturato due fasi distinte (risanamento; consolidamento e sviluppo), così da raggiungere un profilo di sostenibilità economico-finanziaria, stabilizzare gli obiettivi raggiunti e impostare una politica di autofinanziamento degli investimenti.

L’azienda ha così deciso di alienare il proprio portafoglio immobiliare non utile all’esercizio del trasporto pubblico, affidando il compito alla diramazione ATAC Patrimonio Srl in collaborazione con Roma Capitale. 

Il primo progetto di valorizzazione, sotto la Giunta Alemanno, risale al 2004 e ha previsto la suddivisione di questi beni in due elenchi (rispettivamente A e B), a seconda della necessità o meno di una trasformazione urbanistico-edilizia prima della vendita. Nel primo sono rientrate le rimesse Portonaccio e Trastevere, le ex rimesse Vittoria (a Piazza Bainsizza), San Paolo e Piazza Ragusa e le aree Garbatella, Cardinal De Luca, Centro Carni e Acilia. I complessi esclusi, per i quali non era prevista alcuna riqualificazione pre-alienazione poiché già programmata dal Piano Regolatore, erano invece le sottostazioni elettriche Nomentana, San Paolo ed Etiopia, l’area Cave Ardeatine e gli uffici di via Tuscolana. Il piano, tuttavia, non è mai giunto a conclusione per via dell’opposizione dei Presidenti di Municipi, dell’insorgere delle proteste dei comitati locali e delle vicende giudiziarie legate alla gestione ATAC.

Da quel momento, l’unico progetto effettivamente portato a termine che ha previsto la ristrutturazione urbana di un’area ex ATAC (11.800 mq complessivi, in zona Tiburtina) è stato quello della Città del Sole, a opera di Labics. Lo studio, assieme al costruttore Parnasi, ha avviato a partire dal 2010 il cantiere per questo complesso polifunzionale (con spazi commerciali, residenziali e per uffici), la cui conclusione è stimata per il prossimo luglio. 

Nel frattempo, come emerge nel provvedimento comunale n. 122/2014, è stata riproposta l’idea di rivalorizzare tale patrimonio: iter e piani di intervento sono rimasti inalterati, ma sono stati introdotti i processi di partecipazione seguiti dal vaglio dell’assemblea capitolina. L’area Cardinal De Luca è passata dall’elenco A al B e Roma Capitale ha deciso di valorizzare gli immobili dell’elenco A dal punto di vista della spending review. Due le possibili opzioni: la variante urbanistica oppure il loro utilizzo quali sedi amministrative di Roma Capitale, così da abbattere in parte gli attuali costi di locazione, rispettando il piano di rientro 2014-2016 previsto dal decreto “Salva Roma”.

Sebbene l’introduzione dei processi partecipativi sia una piccola ma lieta novità, è al tempo stesso doveroso constatare la cieca opposizione a qualsiasi operazione di trasformazione da parte dei residenti, spesso più portati ad assegnare in automatico un’etichetta negativa, piuttosto che analizzare il programma con uno sguardo analitico.

Di fondo è comunque triste constatare come, ancora una volta, queste manovre di recupero siano unicamente figlie del bilancio e nascondano il serio rischio di vedere tramontare altri cimeli di architettura industriale. La speranza è che possano essere favoriti gli interventi di riqualificazione con una prevalenza di servizi pubblici, frutto di una collaborazione pubblico-privato disciplinata da processi e regolamenti all’insegna della chiarezza e della trasparenza. Una scelta che non solo eviterebbe un aggravamento del carico urbanistico e un’eventuale speculazione edilizia, ma che creerebbe soprattutto i presupposti per un servizio finalmente utile per la comunità.

Pur non essendo paragonabile a città quali Torino e Milano, anche Roma ha vissuto la propria epoca industriale. Sebbene con minore intensità - essendo da sempre un polo prevalentemente politico, religioso e artistico-culturale - le tracce di questo passato riemergono nelle sue periferie, ma anche in quartieri più centrali quali l’area Ostiense-Marconi, oggetto in quest’ultimo ventennio di un importante piano di riqualificazione, come illustrato nel P.U. avviato nel 1995.

Quest’area, conosciuta per la prolificità delle sue terre e la posizione strategica vicino al fiume, fu in principio un’importante zona agricola e per i trasporti, divenuta sede di stabilimenti e manifatture solo a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. La vicinanza a quartieri di matrice operaia come Testaccio e Garbatella, unita all’utilizzo delle linee ferroviarie e fluviali, favorì la nascita e il diffondersi delle industrie. Tuttavia, con il secondo dopoguerra, i trasporti gommati si imposero sulle comunicazioni via ferro e il Tevere non fu più navigabile: due fattori che decretarono l’inglobamento nell’area urbana, segnando la fine del polo industriale romano, con tante fabbriche destinate a chiudere o a delocalizzare in breve tempo.

Il quadro attuale è piuttosto sfaccettato. Le uniche operazioni di riconversione portate a termine sono ricollegabili alla Centrale Montemartini, impianto di produzione termoelettrica ottimamente trasformato in polo espositivo dei Musei Capitolini e sede della fondazione Mattei, l’ex Mattatoio di Testaccio e l’ex deposito Stefer, trattati in due prossimi articoli. A questi si aggiungono i vari fabbricati e stabilimenti riqualificati in sedi amministrative e didattiche universitarie, come l’ex filiale Alfa Romeo e quella che era la Società Anonima Lavanderia “Roma”, che attualmente ospitano la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre, l’ex Vetreria Sciarra a San Lorenzo, ora sede della Facoltà di Scienze Umanistiche della Sapienza, mentre le ex Vetrerie Riunite Angelo Bordoni sono oggi divenute il Rettorato e la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre.

Altri ancora sono gli edifici o i complessi interessati da interventi tuttora parziali, quali l’ex Mira Lanza e i Mercati Generali. Il primo, sviluppato su un’area totale circa 6 mila metri quadrati, era la sede della famosa manifattura di saponi fondata nel 1924 e chiusa nel 1989. Le ultime notizie risalgono alla semi distruzione della struttura a seguito dell’incendio divampato nell’aprile 2014, evento immediatamente successivo allo sgombero da parte della polizia delle porzioni dismesse occupate irregolarmente. Questo perché solo metà del complesso è stata correttamente riqualificata con interventi che hanno portato alla realizzazione della Città del Gusto, attualmente trasferitasi vicino a Villa Pamphili, e del Teatro India, facente capo a dell’Accademia di Arte Drammatica, recuperato a partire dal 1999 dallo studio Colombari-De Boni. Le altre porzioni inutilizzate (e occupate abusivamente), invece, sono state oggetto di un progetto di adattamento per trasformarle in sale, teatri di prosa e laboratori da destinare all’Accademia. Un progetto già confermato nel 2009 ma sospeso a seguito del cambiamento di Giunta, spianando la strada all’incuria. 

Se l’ex Mira Lanza rappresenta un frammento di architettura industriale in parte riconvertita con successo e in parte degradata, i Mercati Generali fino a poco tempo fa avevano l’aria di un enorme cantiere in fase di stallo. Dopo dieci anni di paralisi pressoché totale e l’ipotesi di far cadere il progetto della Città dei Giovani, la situazione pare aver subito un’accelerata. Grazie alla partecipazione del finanziere Robert De Balkany, l’intervento inizialmente nato da un’idea di Rem Koolhaas potrà finalmente ripartire. A seguito della firma del progetto preliminare da parte della Giunta, avvenuta lo scorso 13 marzo, è stato annunciato un accordo per il termine delle operazioni entro il giugno 2017, con un piano di interventi definitivo da consegnare entro 90 giorni. Le novità rispetto alla proposta originaria prevedono una forte presenza commerciale, per circa la metà dell’area, ma anche uno studentato, una biblioteca, una mediateca, un multisala e un’autorimessa sotterranea. Tra le altre novità, una rampa che da via Ostiense arriverà ai parcheggi interrati e la riduzione dell’altezza degli edifici vicino alla ferrovia Roma-Lido.

A tutto questo patrimonio, riqualificato in toto o in parte, si aggiungono numerosi edifici ignorati per lungo tempo dalle politiche urbanistiche. In alcuni casi, dato il valore emblematico assunto negli anni dall’oggetto architettonico, è e sarà difficile assistere a una vera e propria trasformazione. Un esempio calzante è quello del Gazometro, ormai riconosciuto come elemento identificativo del panorama romano. Tuttavia, l’area sviluppata tutt’attorno, ancora di proprietà dell’Italgas, non può essere considerata alla sua stessa stregua. I depositi del carbone dell’ex officina a gas di San Paolo, i forni per la distillazione del litantrace, la sala macchine per l’estrazione e la depurazione del gas, ma anche i gasogeni e gli impianti per i distillati leggeri del petrolio realizzati nel dopoguerra sono parte di un portafoglio infrastrutturale che necessiterebbe di una pesante operazione di trasformazione. Un cimitero di elefanti, disseminato nell’area urbana e periferica della capitale, di cui fanno parte anche l’ex Dogana a San Lorenzo, i cui capannoni rientrano in un progetto di valorizzazione a matrice commerciale fortemente criticato dal quartiere; il Centro Rai di Prato Smeraldo, chiuso nel 2008 e completamente devastato dai ladri di rame; l’ex fabbrica di penicillina (poi ISF Spa) di San Basilio, passata dall’essere una struttura all’avanguardia a relitto urbano dall’elevato rischio geologico poiché contenente ancora molti dei materiali all’epoca prodotti o trattati; oppure l’ex residence Bravetta, oggi al centro di un programma di riqualificazione del quartiere, ma per molto tempo teatro dell’incapacità politica e della speculazione edilizia.

La stessa speculazione edilizia che ha segnato per larghi tratti la storia dell’attuale Parco delle Energie, 14 ettari di verde tra via Prenestina e via di Portonaccio. Qui, negli anni ’20, sorgeva l’ex fabbrica SNIA Viscosa, dismessa nel 1955. Sebbene la zona rientrasse all’interno del progetto urbanistico SDO (Sistema Direzionale Orientale) che prevedeva il dislocamento degli uffici ministeriali nell’area est di Roma, gli stabili ormai abbandonati non hanno mai smesso di attrarre i costruttori. Negli anni ’90 un imprenditore ha acquistato il comparto e allestito un cantiere per la realizzazione di un centro commerciale di sei piani e una palazzina destinata alla Asl. Di lì a breve, lo stesso imprenditore è stato indagato dalla Magistratura per violazione del Piano Regolatore; i lavori tuttavia sono andati avanti, spingendosi addirittura oltre il dovuto: durante l’edificazione dello scheletro multilivello, le ruspe hanno intercettato la falda acquifera. A quel punto, l’impresa ha tentato inutilmente di drenare l’acqua e poi di immetterla nel collettore fognario di Tor Pignattara, facendolo scoppiare e allagando Largo Preneste. In questo caso, l’assenza di analisi e prospezioni geologiche non ha comunque comportato (fortunatamente) l’inquinamento della falda e problemi di staticità per le costruzioni limitrofe, ma si è assistito comunque alla nascita di un lago artificiale, balneabile e profondo sei metri. Per quell’intero decennio, quei 14 ettari sono stati oggetto di battaglie tra i residenti, a favore della conversione in parco pubblico, e il proprietario, sempre determinato a edificare. Si era addirittura pensato di farne piscine private in occasione dei Mondiali di nuoto, prima che venisse emesso il Bando sui “Relitti Urbani” firmato dalla giunta Alemanno, vero e proprio lasciapassare per radere al suolo le costruzioni preesistenti e innalzare nuovi edifici con una cubatura aumentata del 50%. Nel 2004, con l’esproprio di 2 ettari di terreno dove sorge il parco, si è registrato il primo passo verso il cambiamento di destinazione d’uso dell’area. Nel gennaio 2014, in una memoria di Giunta, è stato ufficialmente stralciato il Bando sui “Relitti Urbani” per la vaghezza dei criteri e l’elevato rischio speculativo, e si è dato avvio, nell’agosto scorso, dell’iter per destinare l’area a servizi, annullando ogni possibilità di riappropriazione del terreno da parte del proprietario. Il comparto dietro l’ex Snia Viscosa è così passato per intero alla collettività, segnando un momento storico per il quartiere, riappropriatosi di un patrimonio che stava svanendo prima a causa della desertificazione produttiva territoriale e poi a opera della speculazione edilizia.

Un altro tassello nel mosaico del recupero urbano è rappresentato dai teatri e dai cinema storici. Aree dalle dimensioni contenute, che però spiccano per il proprio valore intrinseco, soprattutto dal punto di vista storico, artistico e culturale. Vestigia del grande passato teatrale e cinematografico di Roma, sono oggi il manifesto di un patrimonio architettonico dismesso e svuotato di senso, che, nell’insieme, riflette un vero e proprio fenomeno applicabile su scala nazionale. Danneggiati dagli investimenti a pioggia di un passato senza programmazione e organizzazione, abbattuti dal proliferare dei cinema multisala, hanno “scelto” la strada della chiusura e dell’abbandono. Le spese di manutenzione e di adattamento erano insostenibili, troppo superiori rispetto agli introiti.

Queste strutture storiche, che i residenti locali (e non solo) faticano a dimenticare poiché parte integrante del proprio passato e simbolo di quartiere, sono state interessate da azioni di occupazione da parte di movimenti e collettivi, animati dal desiderio di non vedere morire un frammento di storia della città, ma anche dalla volontà di sottrarle alle speculazioni e al degrado. Un caso esemplificativo è quello del Teatro Valle, in prossimità di Piazza Navona. Inaugurato nel 1727 e ristrutturato nel 1821 da Giuseppe Valadier, è un classico teatro all’italiana, che nei suoi quasi tre secoli di vita è stato palcoscenico di alcune tra le più prestigiose rappresentazioni teatrali italiane.

Con l’emanazione del Decreto Legge n. 78 del 31 maggio 2010 e le relative “Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica” l’Ente Teatrale Italiano, cui era affidata anche la sua gestione, è stato soppresso. Lo stabile è così passato di proprietà dal MIBACT a Roma Capitale. Da qui la temporanea sospensione delle attività e la proposta comunale di indire un bando di gara europeo per l’affidamento della direzione a un soggetto privato; una mossa che ha scatenato una reazione improvvisa da parte del mondo dello spettacolo che, sentitosi estromesso da ogni tipo di decisione, ha deciso di occuparlo. Un’azione di protesta, da parte di un gruppo di operatori e professionisti del settore, con cui si rivendicava una manutenzione pubblica tramite partecipazione popolare e una gestione con criteri di trasparenza. Da allora, il Teatro Valle occupato è diventato una fondazione con oltre 5 mila soci (Fondazione Teatro Valle Bene Comune), un sito internet dedicato (www.teatrovalleoccupato.it) e oltre 83 mila contatti e 31 mila follower su Facebook e Twitter. Nell’agosto 2014, il Teatro ha deciso di uscire dallo stato di occupazione e intraprendere una nuova fase della mobilitazione e della Fondazione, più orientata verso il dialogo con Roma Capitale. Dopo vari tavoli, nel gennaio 2015 è stata proposta al Comune una bozza di Convenzione per la gestione, in cui si richiedeva l’impegno di garantire la proprietà pubblica del bene per 97 anni, la destinazione d’uso del Teatro quale luogo per la creazione e lo sviluppo di un progetto culturale sperimentale e di corsi di formazione professionale, l’amministrazione affidata alla Fondazione Teatro Valle Bene Comune e la ristrutturazione dei locali a carico di Roma Capitale. La bozza è stata tuttavia rigettata e i rappresentanti della Fondazione hanno deciso di alzare la voce, occupando l’Assessorato della Cultura per avere maggiori risposte sul futuro dello stabile. Risposte che non si sono fatte attendere, come dimostra l’apertura di un tavolo politico dove si dichiara certa la presenza costante dell’Assessorato e del Teatro di Roma, fino a quel momento assente nelle trattative. L’obiettivo della Fondazione è creare un laboratorio culturale, politico e sociale a partire dalle pratiche dei beni comuni e dall’idea di un nuovo teatro partecipato. Non si può ancora sapere se e in quale misura riceverà un sostegno reale dell’Amministrazione, ma di fondo rimane l’amarezza nel constatare quanto l’assenza di un interlocutore abbia sostanzialmente “spinto” l’occupazione, non intesa come modello di gestione, bensì come forma di lotta tanto sgradita (anche dagli stessi occupanti), quanto necessaria per instaurare un dialogo con gli organi istituzionali preposti. Il tutto con il rischio, sempre più diffuso, che dietro l’idea di bene comune svanisca il bene pubblico.

Per quanto riguarda il settore cinematografico, a oggi sono 42 le sale chiuse censite da Roma Capitale: 28 da oltre un decennio, 8 da più di un quinquennio, 5 da più di un biennio e una da un anno. Molte risalenti al periodo fascista, quando erano simbolo di aggregazione sociale e grande strumento di propaganda politica, sono oggi contenitori urbani accomunati da un profondo stato di abbandono, che negli anni hanno vissuto sulla propria pelle periodi di occupazione e gestione da parte di movimenti autonomi e collettivi, ma anche rivolte e petizioni dei residenti locali. 

Anche in questo caso, il valore attrattivo e il bacino di utenza della maggioranza di queste strutture sono scemati col tempo. In gran parte edifici senza particolari qualità ma dal bagaglio carico di storia, di esperienze e di vita di quartiere, hanno dovuto serrare i battenti a causa delle sopracitate cause (crescita esponenziale dei cinema multisala, mala distribuzione e speculazioni immobiliari). Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: si va dalla chiusura dei vari Augustus, Labirinto, Africa, Metropolitan, Overlok, Embassy e Sala Troisi, passando per la decadenza fisica e programmatica dell’abbandonato Cinema Impero, fino alla disillusione dell’Apollo, acquistato dal Comune con l’intento di evitare la trasformazione in bingo e rilanciarlo, ma a oggi ancora in attesa di restauro.

Sebbene la situazione non sia rosea, le istituzioni hanno dimostrato di muovere qualche passo nei confronti di questa problematica. A livello locale, il primo è stato il Sindaco Veltroni, con il bando del 2006 per riqualificare i “cinema perduti”. Il programma, che prevedeva la possibilità di adottare una nuova destinazione d’uso a patto che il 50% delle attività fosse di matrice culturale, non ha tuttavia riscosso grandi successi a causa della poca chiarezza in materia economica e organizzativa. Il 27 agosto 2014, la direttiva emanata dal MiBACT ha di fatto teso la mano alle sale cinematografiche sorte entro il 1 gennaio 1980 e non ancora sottoposte a vincolo storico-artistico. Sono state infatti definite come “storiche” e potenzialmente interessate da un’istruttoria per dichiararne l’interesse culturale e sottoporle a vincolo di destinazione d’uso. Un provvedimento sulla scia di quanto già inserito nel decreto “Art Bonus”, che prevede sia un beneficio fiscale del 30% sulle spese di restauro e adeguamento strutturale, sia il raddoppio del limite di credito d’imposta (che passa così da 5 a 10 milioni di euro) per attrarre portatori di interesse su scala internazionale. Più recentemente, la memoria di Giunta capitolina dello scorso 20 gennaio ha visto l’avvio di un tavolo congiunto tra assessorati per redigere un avviso pubblico, finalizzato alla presentazione di progetti di riconversione anche attraverso manifestazioni di interesse. Alla base, la volontà di recuperare e rinnovare i cinema già chiusi entro il dicembre 2012, riconvertendoli in spazi polifunzionali (culturali, residenziali e commerciali), con alle spalle una forte sinergia pubblico-privato, il coinvolgimento e l’assenso di tutti gli attori in gioco (proprietari, istituzioni e promotori del progetto). Anche in questo caso, però, le polemiche non si sono fatte attendere. Gli occupanti dell’ex Cinema America, infatti, rivendicano la scarsa bontà della memoria di Giunta, a loro avviso rea di non sollecitare il recupero delle sale dismesse o il miglioramento nella gestione di quelle attuali, bensì la demolizione e riconversione di quelle abbandonate, magari destinandole ad attività completamente diverse, sfruttando “l’arma” della diminuzione degli oneri concessori e favorendo quindi la speculazione edilizia.

A fronte della situazione di deficit economico in cui versa la sanità laziale, Roma - così come le altre province - risente dei gravi tagli per risanare il bilancio. Nel 2010, è stato avviato un piano di rientro dai disavanzi regionali, illustrato nel Decreto n. 80 sulla “Riorganizzazione della rete ospedaliera regionale” emanato dalla giunta Polverini. Sono state così previste “la dismissione/riconversione dei presidi non in grado di assicurare adeguati profili di efficienza e di efficacia e la revoca degli accreditamenti per le corrispondenti strutture private accreditate”, il tutto congiuntamente all’applicazione delle misure espresse nel Patto per la Salute 2010-2012, per razionalizzare la rete ospedaliera e migliorare l’appropriatezza nel ricorso ai ricoveri. A distanza di due anni, a fronte dell’emissione del Decreto Legislativo 158/2012 (o Decreto Balduzzi), per le singole regioni è stato inoltre possibile procedere a una valutazione ed eventuale chiusura dei propri nosocomi nell’ottica di un ulteriore riassetto finanziario.

Entrambe le disposizioni hanno inevitabilmente interessato il patrimonio infrastrutturale sanitario, andando a incrinare ancor più una situazione già di per sé “fiaccata” da problematiche di cattiva conservazione e di amministrazione inefficiente delle tecnologie in dotazione.

Il Decreto regionale per la programmazione della rete ospedaliera per il biennio 2014-2015, sotto la Giunta Zingaretti, ha segnato un maggiore riequilibrio tra Roma e le altre province, fino a quel momento ampiamente penalizzate. In parole povere, la Capitale si è ritrovata con ancor più ospedali inutilizzati o sottoutilizzati e sempre meno infrastrutture predisposte ad accogliere un bacino d’utenza crescente, ampliando la propria offerta di servizi assistenziali. A inasprire le cose, le decine di camere operatorie, i macchinari di ultima generazione e le centinaia di letti di degenza (da oltre 1.200 euro di costo l’uno) presenti nei nosocomi chiusi. Un capitale spesso mai utilizzato - proprio come accade per il San Giacomo, oggi inagibile - lasciato “in pasto” all’abbandono e al lento deterioramento, quando invece altri presidi lamentano svariate problematiche, tra cui l’assenza o l’obsolescenza delle attrezzature. Per fare qualche esempio, i corridoi del Cto sono vuoti e in preda all’incuria, il Santo Spirito risente quotidianamente della carenza di personale e del dimezzamento delle sale a disposizione, mentre l’Oftalmico è un grande “sfasciacarrozze sanitario”.

Un destino che potrebbe presto toccare anche al Forlanini. La notizia della sua chiusura e del relativo trasferimento delle attività presso il (già problematico) San Camillo era iniziata a circolare già nel 2008, scatenando da subito proteste e malumori, come dimostra la raccolta di 45 mila firme contro la dismissione.

Se da un lato, questa è dell’ennesima dimostrazione di come le varie Amministrazioni succedutesi nel tempo - piegate alle ragioni di bilancio - si dimostrino cieche rispetto alle esigenze dei cittadini, dall’altro si segnalano alcune iniziative interessanti da parte della Giunta Zingaretti. Il Policlinico Tor Vergata verrà potenziato, mentre si investirà sulle cure ambulatoriali per prevenire il ricovero ospedaliero. Saranno infatti inaugurati 18 punti di medicina generale (aperti nei festivi per 10 ore al giorno) e 5 Case della Salute, ossia centri d’integrazione socio-sanitaria territoriale ricavati da parte dei complessi obsoleti o dismessi.