Giorgio Muratore: il MAXXI? Per fortuna oggi non ci sono più le condizioni per farlo

Progettata dall’architetto Luigi Moretti nel 1934 come Casa del Balilla sperimentale, ma nota a tutti a Roma come la Casa della Scherma, è diventata, suo malgrado, l’emblema dell’incapacità di recuperare il moderno. Anche per la trasformazione, negli anni Ottanta, tra mille polemiche, in un’aula bunker del tribunale di Roma con gravi manomissioni interne, da allora è in stato di semi-abbandono. Ora di proprietà del CONI si è in attesa che torni a nuova vita.

«Sono quarant’anni che se ne parla, il che significa che abbiamo sbagliato qualcosa». È netto l’architetto Giorgio Muratore, professore di Storia dell’Arte e dell’Architettura Contemporanea alla Sapienza e membro del consiglio direttivo di DOCOMOMO, l’associazione che dalla fine degli anni Novanta si batte per la conservazione degli edifici e dei complessi urbani moderni e per la valorizzazione degli stessi. «Mi occupo ormai da diverso tempo del restauro del moderno e del contemporaneo e in tutto questo tempo a Roma ho visto davvero poche cose andare a buon fine - lamenta il professore -. Per tornare alla Casa della Scherma, il punto non è solo la trasformazione da parte della magistratura in un’aula di Tribunale, ma che ancora oggi non sia stato realizzato alcun intervento serio di recupero. A me sembra l’esempio lampante che in questa città gli architetti non contano nulla».

Il tema è quello annoso per la città di Roma di stratificare la “nuova” Roma sull’Antico, far convivere l’architettura contemporanea con i resti del passato nel modo «più civile e coltivato possibile», dice Muratore. 

«In questo scenario l’Ordine degli Architetti ha un ruolo importante: quello di evitare di trasformare la questione in un problema meramente accademico. Di questo, pur insegnando all’università da moltissimi anni, sono pienamente convinto. L’altro pericolo è che il tema del recupero diventi appannaggio di agenzie speciali o di associazioni di volontariato, come Italia Nostra o la stessa DOCOMOMO, che rischiano però a loro volta di diventare dei piccoli feudi». 

Ciò che invece farebbe la differenza, secondo Muratore, è quel che lui definisce coscienza progettuale, ovvero la qualità del progetto. Cita, a proposito, il caso della Centrale Montemartini, come esempio virtuoso di recupero del moderno in un dialogo peraltro riuscitissimo con l’antico.

«È un caso esemplare - osserva - non a caso il New York Times ha recentemente incluso la Centrale Montemartini in un elenco di luoghi da visitare a Roma, escludendo invece il MAXXI, tanto per citare un esempio ancor più noto. Evidentemente, nel caso dell’ex centrale termoelettrica si è verificata una felice, ancorché casuale, concatenazione di eventi che hanno portato al brillante risultato che è sotto gli occhi di tutti. Senza che le Sovrintendenze intervenissero, un caso fortunato, fuori da qualsiasi circuito amministrativo di salvaguardia».

A dirla tutta, il caso della Centrale Montemartini richiama l’attenzione sull’altra grande problematica, sempre critica quando si affronta il tema del recupero urbano. Ed è il fattore costi. A tal proposito vale la pena citare due casi analoghi di Museo per l’arte contemporanea dagli esiti completamente opposti.

Da un lato c’è il Palais de Tokyo, caso di recupero lontano dall’architettura-spettacolo spesso ricercata da altri musei in giro per il mondo. Lacaton & Vassal sono stati in grado di riattivare uno sguardo nuovo sulla complessità e sulle incongruenze dell’edificio costruito nel 1937 per l’esposizione nazionale. Un’operazione prima di tutto intellettuale che ha saputo valorizzare il potenziale inespresso di quell’architettura tracciando tra l’altro la linea del futuro. Lanciando un messaggio sull’idea stessa di museo, che non è il contenitore ma è il contenuto, lasciando così spazio all’artista che reinterpreta quello spazio, invece di restarne schiacciato. 

Tutto il contrario di quanto a Roma è avvenuto con il MAXXI, che già a livello progettuale mancava dei requisiti essenziali. A partire dall’idea stessa di recupero che è stata banalmente risolta con la sopravvivenza di una parte della facciata della caserma demolita, per dar vita a un edificio che poco si integra con il paesaggio urbano circostante. Restando un corpo estraneo. 

Due casi, quello del Palais de Tokyo e del MAXXI, che inevitabilmente ci interrogano sul ruolo del pubblico, in questo tipo di operazioni.

«Quando si cominciò a pensare al MAXXI - ricorda Muratore - proposi di recuperare le caserme Guido Reni, un’operazione che sarebbe costata un decimo, anzi, forse un po’ meno di un decimo, dell’opera di Zaha Hadid. Ma bisognava competere con l’effetto Bilbao, si voleva fare un monumento al rinnovamento di Roma e così l’ipotesi fu scartata. E con una forma rara di provincialismo, ignoranza e arroganza si diede il via al mastodontico progetto del MAXXI».

Ennesimo caso di lievitazione dei costi, una questione che in Italia sembra un destino inevitabile.

«L’altro giorno un collega straniero - dice Muratore - mi chiedeva perché qui da noi i costi non sono controllabili. È una questione intrinseca, che molto ha a che fare con progetti labili, che per forza di cosa provocano la lievitazione delle spese. Quello che manca nel nostro Paese sono progetti precisi, supportati da preventivi adeguati e da efficaci meccanismi di controllo. Non ci sono altre strade per evitare i disastri che noi tutti abbiamo presenti».

Qualcosa di simile è accaduto pure con la Nuvola, progettata da Massimiliano Fuksas, il polo congressuale più grande d’Europa in costruzione a Roma con molte varianti al progetto originario, tempi e costi lievitati e anche l’ombra di un ipotetico danno all’erario. «Qualche colpa l’architetto, probabilmente, ce l’ha - dice Muratore - ma a mio parere ancor di più le responsabilità sono dei committenti incapaci che, ancora una volta, non hanno richiesto e previsto controlli adeguati. È assurdo che questi progetti, così labili, entrino nella fase realizzativa senza alcun controllo. Poi le tragedie sono inevitabili».

E non è andata diversamente con l’Ara Pacis per il professore. «Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti - osserva - più passa il tempo più è evidente che un piccolo restauro della vecchia teca sarebbe stato senz’altro meglio. Soldi buttati, anche in questo caso».

Il restauro del moderno nell’antico resta dunque un discorso aperto, che chiede con insistenza di ripartire ponendo basi nuove. «Un’imbalsamatura dell’antichità è una sciocchezza colossale, così come è una sciocchezza imbalsamare il moderno. I criteri peggiori per la qualità dell’architettura derivano il più delle volte dalle regole scritte e non scritte delle nostre Sovrintendenze così come delle nostre scuole di restauro strettamente connesse. Bisogna modificare il discorso “conservativo” e cominciare a parlare di progetto, di architettura e di qualità. Oggi per fortuna non ci sono più le condizioni esterne per opere come il MAXXI e l’Ara Pacis, che restano comunque a futura memoria come monumenti al malessere delle società di quegli anni. Testimonianze di un periodo ormai tramontato, tanto che, paradossalmente, ci sentiamo ormai quasi costretti a tutelarle. Un monito a quello che non bisogna fare» conclude amaro Muratore.