Fra gli aspetti emblematici dell’architettura e della città contemporanea è la complessità. Non a caso, dunque, anche la nostra attività professionale ne ha raggiunto livelli impensabili fino a solo qualche decennio fa (peraltro, difficilmente simulabili all’interno delle scuole di architettura). Come abbiamo avuto più volte modo di osservare, anche dalle pagine di questa rivista, il progetto contemporaneo è frutto di un lavoro interdisciplinare articolato, portato avanti da gruppi dalle competenze miste di carattere tecnico-manageriali, spesso purtroppo asserviti alla burocrazia, alla politica e ai poteri economici. Tali gruppi includono progettisti diversi, strutturisti, impiantisti,
paesaggisti, costruttori, produttori di materiali edili, esperti di sicurezza e cantierizzazione, di marketing e real estate, cost-controllers ecc. Noi architetti oscilliamo così fra un ruolo di coordinamento - compito impegnativo in cui siamo talvolta considerati inadeguati ma che tuttavia ci riconosce un certo livello di centralità - e un ruolo più marginale, e purtroppo anche più frequente, ridotto a quello di produttori di immagini funzionali alla promozione commerciale dell’edificio, con la complice presenza di qualche superficiale forma di greenwashing o di preoccupazioni ambientaliste esibite più o meno ingenuamente.
Quanto a queste ultime è necessario ricordare, lo abbiamo fatto in diverse occasioni, che si tratta di un tema fondamentale sul quale il nostro Ordine e la nostra rivista sono impegnati da tempo; ma si tratta purtroppo anche di un ambito che nei fatti, con la possibile eccezione di alcuni Paesi per lo più nel nord dell’Europa, non ha avuto gli esiti concreti che si speravano. Ciò si è verificato in particolare qui a Roma. Il prefisso “eco”, abusatissimo, è apparso dunque per lo più utilizzato con finalità di comunicazione commerciale. Alla scala urbana la questione assume importanza ancora maggiore: la rigenerazione sostenibile, che non prevede ulteriore consumo di suolo ma punta al retrofitting dell’esistente, cioè al suo adeguamento non solo dal punto di vista volumetrico, ma soprattutto da quello dell’efficienza energetica, dell’accessibilità, della sicurezza (anche sismica), sullo sfondo di un più ampio orizzonte socio-culturale, non può non essere un tema centrale soprattutto in una città, come la nostra, dove la crescita demografica è limitata e le condizioni di sviluppo sufficientemente buone.
C’è poi la questione della liveability, la “vivibilità” vista come organizzazione spaziale di persone e luoghi: un tema, questo della “qualità della vita”, fra i più importanti per il nostro futuro. Pur trattandosi, evidentemente, di una nozione che contiene un certo grado di soggettività (cui puntualmente si appellano gli Amministratori delle città ultime in classifica per provare a difendere il proprio operato), il consenso sui fattori che la determinano è sempre più circoscritto. In generale, ciò avviene quando sono rispettate alcune condizioni in almeno tre ambiti fondamentali: la qualità ambientale, la piacevolezza alla scala di quartiere o di vicinato, il benessere individuale degli abitanti. Fra le principali atouts urbane, una delle più controverse è costituita dalla elevata densità residenziale: sebbene gli studi più recenti concordino sul fatto che densità elevate, purché opportunamente pianificate, contribuiscono in maniera determinante a ridurre la cosiddetta “impronta ecologica”, sembra difficile arrestare il consumo di territorio.
La questione delle reti territoriali e urbane, sia fisiche sia digitali, cui questo numero è in gran parte dedicato, è poi strettamente legata a un nuovo modello di fruizione dello spazio, fatto di flussi e percepito in maniera sempre più dinamica. Tali reti - dai trasporti allo smaltimento dei rifiuti, da quelle energetiche a quelle idriche e informatiche - costituiscono anche uno dei maggiori problemi della contemporaneità: il loro sovrapporsi contraddittorio se non conflittuale, le loro sconnessioni, insufficienze e inefficienze determinano degrado e congestione; a tali negativi aspetti le grandi aree metropolitane sembrano in grado di reagire soltanto grazie a insospettabili capacità di resilienza.
Più di ogni altra cosa, anche alla luce delle recenti vicende romane, ci sembra infine necessario ragionare su come sia importante garantire una buona governance. La crescente complessità degli attori in gioco (si pensi alla rilevanza assunta dalle partnership fra pubblico e privato nei meccanismi di trasformazione della città) impone un orizzonte di riferimento molto più ampio di quello tradizionale: quello appunto garantito da una governance che non è “governo” ma va invece intesa proprio come sistema di reti auto e inter-organizzate, in grado di definire e implementare gli obiettivi politici pubblici con processi che mirano al dialogo, al compromesso e alla negoziazione fra soggetti governativi, amministrativi e privati, comunità, ONG, associazioni no-profit ecc. Tutti punti, questi appena elencati, da tempo radicati all’interno del miglior dibattito sulla qualità urbana.
Si tratta di fattori che si ritrovano, più o meno fedelmente, fra quelli utilizzati dal Gallup World Poll, che prevede sette indicatori fondamentali del grado di felicità, di cui cinque di base: legalità e ordine, cibo e alloggio, lavoro, economia, igiene. Due, più soggettivi e pertanto difficili da identificare, che hanno senso solo quando i precedenti sono soddisfatti: benessere personale e sociale e grado di motivazione dei cittadini. La vivibilità non è dunque soltanto legata a una più o meno piacevole percezione del paesaggio urbano, non è questione sovrastrutturale: è dimostrato che la competizione globale oggi in atto fra le città, sostenuta da flussi migratori sempre più consistenti e che spesso coinvolgono anche classi culturalmente qualificate (in grado quindi di scegliere dove abitare), è battaglia dalla quale escono vincitori e vinti. Dai suoi esiti dipende il futuro della città e dei suoi abitanti; dipende, in particolare, il futuro di Roma.
In un’età in cui si è da tempo registrata la convergenza fra arte e tecnologia e in cui cultura e creatività sono produttrici di reddito come un tempo lo erano le fabbriche, le città in grado di garantire benessere fisico e psicologico ai propri abitanti attraggono i migliori talenti e riescono a produrre attività di successo, funzionando come “incubatrici” del nuovo, attivando virtuosi processi di crescita: è il cosiddetto brain gain, l’acquisizione di “cervelli” capaci di innescare attività produttive; un meccanismo che contribuisce significativamente al benessere generale ed economico. Le città alle quali tale “gioco”, per i motivi più vari, non riesce, tendono invece, più o meno lentamente ma inesorabilmente, a regredire e impoverirsi, non solo dal punto di vista demografico ma anche spirituale e materiale. Tante sono le classifiche annuali della qualità della vita: ma è interessante notare che da tali ricerche risulta che il grado di felicità personale è meno legato al denaro di quanto si possa superficialmente pensare, quanto piuttosto alla capacità di soddisfare tutta una serie di condizioni “post-materiali”: alla fine è insomma meglio vivere più modestamente in una città che offre una elevata qualità della vita che viceversa. Roma, che pure vive di una rendita di posizione straordinariamente elevata, è purtroppo negli ultimi anni regredita. Dobbiamo lavorare insieme perché un simile trend negativo venga invertito e perché le nostre professionalità, ampiamente riconosciute nel mondo, ci tirino fuori da un presente che riteniamo di non meritare, consentendoci di progettare il nostro futuro.
Livio Sacchi