di Franco Ferrarotti
Sociologo
Nel corso degli ultimi settant’anni ho avuto la fortuna, e goduto dell’immeritato privilegio, di visitare e soggiornare, non da turista ma da semplice convivente, tra regioni e popoli del pianeta, tuttora in maggioranza e pur tuttavia considerati “extra-comunitari”, indigeni, primitivi, combustibile passivo a tal punto che solo da una fiammata esterna, forse l’opera di missionari o di sanguinari conquistadores, potevamo attenderci l’uscita da un’inerzia millenaria.Se mi do un’occhiata alle spalle, mi rendo conto che, più per curiosità che per un deliberato progetto “scientifico”, nel corso di alcuni decenni ho visitato di persona e ho studiato, con risultati talvolta positivi, il mondo periferico: le borgate, i borghetti e le baracche di Roma, la “corea” di Milano e la “falchera” di Torino, le favela di Rio, le poblacione del Cile, le barriada del Venezuela e del Perù, le villamiseria argentine, gli slum e le blighted area di Los Angeles, New York, Detroit e Chicago, non dimenticando la miseria nei paesi del “socialismo reale”, dalla Romania alla Polonia e all’Ungheria. Oggi, alcune intuizioni circa la funzionalità dell’emarginazione povera rispetto ai quartieri ricchi, per non parlare dei “magnaccia” della miseria (i poverty pimp) risultano ampiamente confermate. La periferia non è più periferica. Ma la nuova realtà post-urbana stenta a emergere. Quando anche la progettazione e il “rimodellamento” degli aggregati periferici privi, come recita il linguaggio burocratico, “di funzioni sociali pregiate”, abbiano trovato la soluzione migliore, resta in piedi il problema dell’esclusione sociale. Temo che la generosa proposta di un “rammendamento” di Renzo Piano non sia sufficiente.
L’esclusione sociale è una caratteristica delle periferie o favela o barriada o poblaciòne o slum o blighted area sul piano planetario, dalle bidonville al mocambo, anche se pesano ovviamente le specificità dei differenti contesti storici. La storia pesa anche su quelli che non hanno storia. È infatti una questione che riguarda lo spazio e la convivenza. Mi pare difficile avviarne la soluzione proponendo, come è stato di recente fatto da Saskia Sassen, in Lettera internazionale, la creazione di comunità mediante la “rete” e la comunicazione elettronica. Mi ricorda l’idea di democrazia “diretta”, con la confusione fra democrazia e sondaggio d’opinione o ricerca di mercato, oggi avanzata da certi improvvisati discepoli di Rousseau. Ma mi richiama, anche, con una certa sorpresa, la ricetta di Edward C. Banfield, il noto autore di The Moral Basis of a Backward Society (1958), secondo il quale, per far uscire un paese del Mezzogiorno italiano dal sottosviluppo cronico occorreva la pubblicazione di un settimanale locale, ignorando che in quella zona si contava all’epoca l’80 per cento di analfabeti. La sociologa Saskia Sassen sembra voler meritoriamente studiare le periferie urbane dal terrazzo di un superattico di lusso. Viene duramente punita la “boria” dei sociologi.
In effetti la situazione è più complessa. Richiede la ricerca sul campo e il coinvolgimento della popolazione interessata. Il vissuto è più ricco e molteplice del pensato. Non esce dagli studi degli urbanisti e degli architetti. Non ascolta i sociologi urbani. Procede dalla vita delle persone, riflette le loro cangianti situazioni e condizioni, trova soluzioni immediate e di fortuna, aggiustamenti temporanei, precari. I borgatari sottoproletari sono condannati a fare ogni giorno la loro “invenzione artistica” per la sopravvivenza. Vivono di espedienti.
Un dato è certo: la contrapposizione fra centro e periferia non regge più, anche se è ancora il tema dominante delle preoccupazioni di un sociologo intelligente e informato come Edward Shils. Si può, anzi, affermare che non solo la periferia non è più periferica, ma che gioca un ruolo ormai centrale. Per esempio, Roma conta due milioni e ottocentomila abitanti. Più di un terzo abita in periferia. Se la periferia si fermasse tutta la vita cittadina ne sarebbe bloccata.
Dopo la pòlis monocentrica classica e la città industriale agglutinante, che si espande indefinitamente a pelle di leopardo, mossa dai sottostanti interessi economici e dai rapporti materiali di vita, sta emergendo un nuovo aggregato urbano, dinamico e policentrico.
Nella presente fase di transizione, come ho più sopra osservato, il centro ha sempre più bisogno della periferia. Se questa si fermasse, tutta la vita urbana si arresterebbe. Le due grandi categorie storiche, cui più sopra ho accennato - la città monocentrica e la città industriale agglutinante - non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana. Neppure la città come pura “processualità”, al modo in cui la intendevano i ricercatori della Scuola di Chicago, negli anni Trenta, appare adeguata. La città si pone come una molteplicità di sistemi e di sub-sistemi dialettici in costante interazione e reciproco condizionamento che, però, non sono governati da alcuna armonia prestabilita. Né a questa molteplicità può rendere giustizia alcuna visione apocalittica per cui si passerebbe, secondo una sequenza necessaria e necessitante, dalla pòlis alla metropoli e quindi alla megalopoli per approdare infine alla necropoli, come già temeva Lewis Mumford.
Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia.
Nessun dubbio che realtà urbane come quella dell’odierna Los Angeles, tipico esempio di realtà post-urbana, con le free way che la cingono, la stringono e la incrociano e la “tagliano”, funzionando anche come drive in e drive through, appiattiscono la città in un fitto crocevia e ne fanno un paradossale insieme di centoventi sobborghi in cerca di una città che non c’è o non c’è più.
Il nuovo aggregato urbano ha da recuperare un senso al di là della pura congestione della città industriale, storicamente accentrata anche per la facile dissipabilità del vapore, all’epoca della prima Rivoluzione industriale primaria fonte di energia. Il nuovo aggregato urbano recupera il senso della convivenza urbana ponendosi come realtà policentrica, articolata e dinamica, non puramente dispersa, polverizzata. Per questa ragione, è dubbio che si possa avere una nuova città, policentrica e post-urbana, senza un’idea nuova di città o, più precisamente, senza ridefinire il rapporto fra spazio e convivenza.
Le migrazioni di grandi masse umane su scala planetaria rendono il concetto tradizionale di cittadinanza chiaramente inadeguato. Non si tratta né di jus soli né di jus sanguinis. Il polítes ateniese, il civis romanus, lo stesso citoyen della Rivoluzione del 1789, che è considerato tale solo se proprietario di un lembo di terra francese, indicano figure più esclusive che inclusive. Non sono quindi in grado di “accogliere, né giuridicamente né esistenzialmente”, i nuovi arrivati, quegli immigrati extra-comunitari, di cui tuttavia le economie dei paesi tecnicamente progrediti non possono fare a meno. Da questa esigenza di ordine pratico parte il discorso sui diritti umani. Sembra profilarsi un nuovo imperativo etico a portata universale, la cui attrazione pratica cozza tuttavia contro il muro dei privilegi acquisiti e nei secoli consolidati: tutti gli esseri umani sono esseri umani e come tali vanno accolti, riconosciuti e trattati.
Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Il principio tecnico subordina a sé, alle proprie esigenze, rigidamente scandite, le dimensioni umane e i processi naturali: cultura contro natura, meccanico contro organico, precisione numerica contro approssimazione intuitiva. Peccato che la tecnica sia una perfezione priva di scopo. Adottare il principio tecnico significa trasformare i valori strumentali in valori finali: un equivoco dalle conseguenze catastrofiche. Occorre, oggi, un nuovo profilo del costruire. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. In questo senso è ancora significativa la lezione di Adriano Olivetti.
Una sfida ardua. Implica l’andare oltre il progetto singolo, nella sua peculiarità di invenzione artistica, scoprire e rispondere alle domande del luogo, acclimatare il progetto al territorio, alla sua conformazione fisica, far incontrare l’estetica e la geografia. L’idea che le società odierne siano entrate in una fase “fluida” e che il procedere dell’industrializzazione, tecnicamente aggiornata, le appiattisca come un ferro da stiro ha una certa suggestività, ma sa di eccessivo accademismo ed è insostenibile. Occorrerà procedere a ulteriori ricerche per misurare il grado e la qualità della resistenza opposta dalla specificità dei singoli contesti.
La globalizzazione commerciale può ben ignorare, nella sua fame onnivora di nuovi mercati, le caratteristiche essenziali e specifiche degli ambienti, far valere il principio della a-territorialità, ma il prezzo da pagare per questa apparente liberazione dai vincoli ecologici e ambientali sarà drammaticamente alto. Nel caso migliore, questa tendenza macina profitti nel breve, ma sfigura la comunità. Investe e cambia i contorni dell’ambiente naturale, ma è destinata a incontrare presto, sempre prima del previsto, la scarsità delle risorse, umane e materiali, la “vendetta” della Natura. Noi oggi sappiamo che le materie prime offerteci dalla natura non sono inesauribili. Fa girar la testa pensare che gli stessi rivoluzionari dell’Ottocento non hanno avuto il benché minimo sentore del problema, che davano la natura per scontata, tanto che nel Manifesto (1848) di Marx e Engels la parola “natura” non compare.
Porre il problema di un profilo del costruire comporta immediatamente una domanda che suona provocatoria, ma che ne è in realtà la conseguenza logica: c’è un’alternativa ai grattacieli? È di certo nota la tensione fra centro e periferia, così com’è noto il concetto di “frizione dello spazio”, elaborato da Adam Smith per chiarire il bisogno della concentrazione - di manodopera, materie prime e capitali - essenziale per la città, divenuta sede della produzione industriale. Tutti sanno che, sulla rocciosa isola di Manhattan, la città industriale agglutinante, non potendo espandersi sul piano orizzontale, ha dovuto necessariamente esplodere verso l’alto. Un blocco causato dalla conformazione fisica del luogo creava un’esplosione verticale e nello stesso tempo realizzava un simbolo, un paradigma, un’esperienza esemplare, dotata di un’incredibile potenza mimetica. Anche là dove lo spazio era disponibile, nei paesi emergenti, da Singapore alla Malesia alla Corea del Sud, scattava l’assalto al cielo.
Ma un’alternativa al grattacielo c’è, cresce quotidianamente sotto i nostri occhi. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Città e campagna non si fronteggiano più come ancora al termine del Secondo conflitto mondiale. L’effetto di padronanza della città si è esteso, ha coinvolto l’hinterland, ha investito e trasformato la campagna. Urbano e rurale costituiscono ormai un continuum. Non è più lecito parlare di urbanizzazione. Bisogna far ricorso a un neologismo non troppo elegante ma perspicuo: rurbanization, vale a dire la congiunzione di rus, “campagna”, e urbs, “città”. Ciò significa che la periferia non è più periferica e che il centro deve de-centrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte. Bisogna ripensare lo spazio, recuperarne il senso umano, rivalutare il paesaggio come eredità storica e costruzione mentale. In particolare, occorre contrastare l’idea che la tecnica, di per sé, costituisca l’unico
principio-guida dello sviluppo. Molti analisti sociali, ma anche uomini politici e attenti ricercatori, sono affascinati dalla macchina, dalla sua perfezione operativa e dai risultati che sembra apparentemente ottenere senza alcun sforzo. Ci si può domandare: quale ansia si nasconde dietro il profilo del Reliance Building di Chicago, della Torre Velasca di Milano o delle Petronas Towers di Kuala Lumpur? Quella che alla fine dell’Ottocento aveva spinto Louis Henry Sullivan a dire che “ogni pollice di un grattacielo deve essere qualcosa di orgoglioso e di sublime”, quella per cui Frank Lloyd Wright parlava di «stratagemma meccanico per moltiplicare le aree tante volte quante è possibile vendere e rivendere il terreno originale». O quella per cui Richard Rogers afferma «che New York è affascinante perché in uno skyscraper riesce ad assemblare differenti razze, culture, espressioni artistiche»?
Per questo occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L’iniziativa più rivoluzionaria, nelle condizione odierne, è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo, un riorientamento del costruire che passi dall’interesse per il meccanico all’attenzione per l’organico, un mutamento profondo rispetto a un mondo in cui sono considerati reali e validi soltanto corpi fisici e misurazioni meccaniche, verso un mondo nel quale esigenze, emanazioni, aspirazioni umane abbiano importanza, siano prese in considerazione, godano di una priorità nel progetto urbanistico e architettonico.
Oggi, il calcolo scientifico della costruzione appare ancora legato a una logica di invasione e vittoriosa trasformazione dell’ambiente. Si autodefinisce e si autovaluta in metri cubi e in cementificazione. La natura non è vista, come andrebbe vista, nella sua funzione di collaboratrice. È una nemica da soggiogare e vincere. Ciò è vero fin dal motto programmatico lanciato da Francis Bacon nel Novum Organum (1620) agli inizi dell’epoca moderna: Natura, nonnisi parendo, vincitur. In altre parole, “per vincere la natura, occorre far finta di obbedirle”. Ma è un’obbedienza puramente tattica, tesa a conoscerne, a carpirne i segreti, le “leggi”, le uniformità, al solo scopo di sfruttarla meglio, “scientificamente”, fino all’osso. Questa impostazione predatoria oggi va rovesciata con un nuovo stile del costruire, uno stile fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell’ambiente senza violentarlo, indovina i passaggi e le vie da rispettare per dar loro aria e luce, non soffoca e non blocca, bensì apre, rischiara, vivifica.
Nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, pochi, una manciata d’anni prima della sua morte (avvenuta l’ultimo giorno di febbraio del 1960), passeggiavo a Manhattan in Park Avenue, insieme con Adriano Olivetti. Giunti all’altezza della 56ª strada, di fronte al nuovo, fiammante grattacielo della Leder House, Olivetti mi sussurrava, con aria delusa e pensosa: «Peccato. Ecco un altro grattacielo. Non si fa altro. Non c’è una sola idea nuova. Dopo l’Empire State Building, le Torri della mia Manhattan, poteva bastare, sarebbe sufficiente un nuovo, sempre possibile black out a bloccare tutto, comprese le persone in ascensore, a mezza corsa, forse, nell’oscurità, quasi ad aggrapparsi alla sola partecipazione umana possibile, date le circostanze, costrette a dedicarsi all’incremento demografico… Non ci sono idee nuove, soluzioni originali». Olivetti scuoteva il testone, perplesso, si riprendeva, lento pede, a camminare, pensando.