di Daniele Manacorda
Ordinario di Metodologie della Ricerca Archeologica
presso l’Università Roma Tre
Ci sono due modi di guardare i siti archeologici: uno diacronico, che li scruta nelle loro evoluzioni, fatte di cambiamenti e persistenze, e uno sincronico, che ne individua una fase, nella sua totalità quando possibile, e ne mette in luce modi di uso e funzioni. La prima privilegia la storia, cioè il tempo, la seconda l’antropologia, cioè l’organizzazione della vita umana. Noi abbiamo bisogno di entrambe le ottiche, che non sono in conflitto, anche se ciascuna di loro ha bisogno delle sue procedure.
La ricerca archeologica in città è stata accompagnata nei secoli da queste diverse pulsioni e qualche volta si è fatta strumento delle più varie aspirazioni: il risultato è stata una continua trasformazione della forma urbana prodotta da una miriade di interventi di diversa scala, che hanno aperto scenari complicati - per non dire imbarazzanti - dove gli antiquari o gli archeologi di turno hanno svolto alternatamente la parte dei carnefici e quella delle vittime.
Anche oggi, se gli archeologi possono presentarsi alla ribalta dei paesaggi urbani con le carte a posto per quanto riguarda i metodi dell’indagine e la capacità di produrre conoscenze comprensibili e condivisibili, non per questo gli esiti delle modalità di conoscenza archeologica delle città si presentano serenamente sui loro diversi palcoscenici. Se oggi siamo in grado di rispondere con pertinenza, in termini sia di metodi sia di strategie, alle domande relative alla conduzione degli scavi, non per questo sono a disposizione risposte univoche e condivise circa il perché degli interventi archeologici in città e le motivazioni che li muovono e li legittimano. Resta sempre aperta la domanda circa l’apporto positivo o negativo, e comunque conflittuale, che essi danno alla città moderna e, innanzitutto, alla sua forma, intesa come strumento di qualità della vita.
Insomma, se nessuno mette in discussione, almeno teoricamente, la liceità e l’importanza dell’accumulo di nuove conoscenze, le modalità in cui queste si possono raccogliere sono oggetto di un soppesamento, che oggi sembra aver trovato un equilibrio di fatto in una sorta di trattato di pace, mai veramente sottoscritto, che banalizzerei così: gli archeologi hanno rinunciato da tempo a far da “strumenti ciechi di occhiuta rapina” per manipolazioni della forma urbana solo apparentemente dettate da valutazioni storiche, come è più volte accaduto in passato: rinuncino ora a mettere in discussione la forma urbana così com’è semplicemente in nome della conoscenza storica della città, pretendendo di scavare dove, come e quando lo ritengono utile, senza domandarsi che cosa accadrà dopo. Al tempo stesso, le altre competenze disciplinari, comprese quelle amministrative e politiche, garantiscano che non si toglierà l’acqua in cui nuota l’archeologia, cioè non continuerà la politica del doppio binario, che con una mano difende ed esalta i resti materiali del passato delle città e con l’altra li spazza via per sempre, eliminando in radice il problema (è la storia dei centri storici ieri, delle periferie urbane e dei suburbi oggi).
In questo equilibrio lo scavo archeologico inteso come attività di conoscenza diviene una componente necessaria e utile di attività più complesse, che riguardano le trasformazioni del tessuto cittadino: impone le sue leggi e le sue procedure nel momento in cui si incide il corpo vivo della città, ma non impone di inciderlo se altre necessità non lo richiedano. Lo scavo archeologico non agisce come una variabile indipendente, né si propone come la prima e sola cosa da fare: lo diviene semmai se, come e quando un insieme contestuale di valutazioni debba comunque prevedere la trasformazione di parti di suolo urbano. Corollario di questa impostazione, che è alla base di quella che chiamiamo archeologia preventiva, è che gli esiti dello scavo non sono né un grazioso regalo dell’archeologia alla città, che veda poi come risolvere il problema, né un fardello imposto in nome della conoscenza, tirata per le orecchie a svolgere un ruolo non suo.
In altre parole, la conoscenza storica non può essere chiamata in ballo per imporre sulla ribalta della città quinte, personaggi e sipari che nessuno ha messo in cartellone. Acquisite le conoscenze (grazie al fatto che il patto garantisce che ciò che va ancora conosciuto non venga prima distrutto), i criteri che condurranno a scegliere il destino di quanto riemerso dal suolo, documentato e capito, saranno confrontati sui tavoli complessi del governo della città, dove le ragioni dell’archeologia contribuiranno a determinare scelte che non riguarderanno soltanto il destino di qualche muro, ma il suo ruolo nella città dei vivi. Perché alla ricerca storica chiediamo innanzitutto di aiutarci a comprendere la più intima vocazione dei luoghi, che nasce dall’instabile equilibrio che lega sempre fra loro la conservazione e la trasformazione degli spazi nel tempo.
L’Area Archeologica Centrale di Roma è l’esempio - direi classico - dei concetti che hanno accompagnato l’uso della ricerca archeologica in città e delle loro trasformazioni, dagli abbellimenti napoleonici agli sterri ottocenteschi del Foro, dagli sventramenti urbanistici del Ventennio ai primi vagiti e poi ai “do di petto” dell’archeologia urbana, che ci ha regalato conoscenze spettacolari e raffinatissime delle storie intrecciate nei millenni in questo lembo di città, ma che non ci ha saputo dire né come tutelarle, né come valorizzarle, né come gestirle.
Spettava a lei? certamente sì, ma certamente non solo a lei. Siamo capaci oggi di governare coralmente questa stratificazione complessa, non solo materiale, ma ideologica, culturale e politica, che si è accumulata sulla stratificazione urbana, su quella esposta senza un progetto in tasca, su quella smantellata senza che sia stato possibile difenderla, cioè conoscerla?
Sul futuro dell’Area Archeologica Centrale e in particolare della Via dei Fori imperiali ho avuto modo di dire il mio pensiero in altre occasioni (Studi Romani, LXII, 2014, pp. 433-439), partendo dalla considerazione che un tema complesso e viscerale (in tutti i sensi) come questo ha bisogno non di steccati o certezze sbandierate, ma di una maggiore condivisione di scelte progettuali, che siano frutto di un desiderio di riconciliazione fra posizioni legittimamente diverse. A fronte di proposte progettuali organiche e argomentate, trovo praticabile la scelta della demolizione, con la ricomposizione delle piazze imperiali, come quella del mantenimento, accompagnato da una riqualificazione, o della trasformazione progettata, come quella proposta da quel concretissimo visionario che fu Lello Panella, dopo uno studio molto approfondito dell’intero comprensorio.
Se le parole hanno un senso, qualunque soluzione dovrà comunque dare a Roma e ai romani non tanto un parco archeologico, quanto un parco urbano nel senso più ampio del termine. Non è solo questione di aggettivi: da un lato privilegiamo la migliore contemplazione possibile dei resti antichi distinti dalla vita della città moderna; dall’altro cerchiamo di trasformare quelle aree, cuore della città antica e della città moderna, in luoghi più pienamente vissuti, in uno spazio quindi più vitale e vivo.
Sono inconciliabili queste due posizioni? Non credo. Quel che conta è l’uso sociale di questi spazi urbani, per i cittadini e per i milioni di turisti che li visitano. E credo ci sia condivisione su alcune scelte di carattere generale: ad esempio sul recupero di una serie di edifici e complessi di pregio; sul limitare il più possibile la realizzazione di nuovi manufatti; sul privilegiare la manutenzione ordinaria rispetto ai restauri, spesso ripetuti, costosi e a volte addirittura dannosi. C’è condivisione sulla visione del paesaggio urbano come palinsesto di paesaggi stratificati, come museo, ma vivente, dell’evoluzione urbana, come immagine condivisa da una comunità.
L’archeologia non può essere chiusa in uno zoo separato dalla vita contemporanea. I monumenti antichi non possono neppure diventare vuote tappezzerie, orpelli formali di una città che li ostenta e al tempo stesso li ignora.
Usare i siti e i monumenti in città significa inserirli nei ritmi alterni della vita quotidiana, dare loro una funzione piena, di memoria certo, e di vita: farne luoghi di uso, non di consumo. Significa favorirne la frequentazione, creare spazi gradevoli e accoglienti, che aiutino a comprendere la stratificazione urbana e storica vivendoci dentro (a partire dall’area archeologica centrale e dal Palatino). trasformandoli in luoghi in cui non solo si possa guardare qualcosa, ma anche fare qualcosa, vincendo “il tabù della intoccabilità” per riprendere l’espressione usata non ora, ma ben otto anni fa da un giovane storico dell’arte, Fabrizio Federici (Il Giornale dell’arte, 1.10.2008, p. 48), un allievo pisano della scuola di Settis, ben lontano da certi odierni catechismi che imperversano nei media cartacei e digitali. Significa ricevere dai resti del passato il senso della complessità della storia, delle sue stratificazioni culturali, del nostro ruolo nel tempo che scorre negli stessi luoghi.
Se non possiamo fermare gli orologi a una stagione passata, dobbiamo tuttavia studiare il passato per comprendere meglio le ragioni conflittuali del presente. E capire che, se il problema sta ancora davanti a noi più ingombrante che mai, ciò dipende certo dalla sua complessità e anche dalle storiche difficoltà delle istituzioni coinvolte a profilare soluzioni credibili, che comportano capacità di argomentazione culturale e tecnica delle scelte. Ma queste storiche difficoltà hanno radici profonde, sono anche il frutto della storia culturale di Roma e dell’Italia tutta e, in fondo, dell’Europa se pensiamo al ruolo della Francia napoleonica per la moderna storia urbana di Roma.
A dire il vero, di un atteggiamento nuovo da parte delle istituzioni ci sarebbe ora qualche segnale: uno fra tutti l’accordo epocale tra Stato e Comune per la gestione consortile dell’Area Archeologica Centrale, che mi auguravo sarebbe andato avanti presto e bene sotto una guida responsabile e fattiva. Lo aspettiamo ancora fiduciosi alla prova, sperando che non venga svuotato ancor prima di nascere. D’altra parte se, come sento dire, Roma ha una nuova Amministrazione comunale, prima o poi batterà un colpo.
Ad oltre trent’anni dalla legge Biasini, Roma ha bisogno di una visione organica sulle diverse competenze, sulle strategie da seguire, sulle risorse. E quindi ha bisogno di superare categorie interpretative desuete e di dotarsi di strumenti culturali nuovi, guardando al mondo che sarà, non solo a quello che è stato.
Quel che vorrei è che prima di prendere decisioni definitive e irreversibili sul futuro di questa o quella via, lo Stato e il Comune diano prove concrete, misurabili, della capacità di risolvere, ad uno ad uno, i punti critici dell’intero comprensorio, che tutti conosciamo e che rendono patologica la sua condizione di grande infermo. Da Villa Rivaldi, che potrebbe diventare il cervello pensante dell’Area Archeologica Centrale, luogo di ritrovo e di godimento fisico e intellettuale per tutti, al Ludus Magnus, dai giardini del Colle Oppio all’Antiquarium Comunale diroccato, via via per tutti i luoghi del degrado e dell’abbandono frammisti agli scenari del turismo globalizzato, buchi neri di inefficienza amministrativa e afasia culturale.
Si prendano di petto queste ferite e si dimostri che in un paio di anni quelle almeno possono essere sanate. Si definisca la funzione di aree e monumenti e si organizzi la loro gestione pubblica. E, in mancanza di questa, si individuino i soggetti sociali cui affidarla, curandone l’immagine e dotandoli di qualche punto di ristoro per accogliere degnamente i frequentatori del luogo e mantenerne il decoro tenendo in ordine vialetti, panchine, fontanelle ed aiuole.
Buone notizie venivano in questa direzione dalla decisione della passata Giunta di affidare a privati la gestione di quattro antichi casali di Villa Pamphili per attività culturali e punti di ristoro. Tutto bloccato - credo - dalla inveterata patologia del formalismo giuridico e amministrativo, generatore di infiniti ricorsi e nemico giurato dell’efficacia e dell’efficienza dei sistemi.
Come che sia, vinte queste sfide, sarà possibile affrontare con maggiore orgoglio e fiducia il resto dei problemi, ricercando ciò che unisce più che ciò che divide. Non voglio peccare di ottimismo, ma sento un’aria nuova in giro (che ha rimesso anche in campo nuove anastilosi virtuali e reali e riempito le serate con gli spettacoli di Angela e Lanciano), o forse mi illudo di respirarla: un’aria che circola anche perché sembrano essersi mossi all’unisono alcuni pezzi delle istituzioni e alcuni settori dell’opinione pubblica, almeno quelli stufi di rimanere schiacciati tra le sciatterie del “tira a campare” e certe prediche dei conservatori di un passato mai esistito e dei nostalgici del Grand Tour.
In questo campo, come in tanti altri settori della vita pubblica, l’Italia e non solo Roma è a un bivio e spetta a ciascuno di noi provare ad andare avanti con fiducia o fermarsi ancora una volta, bloccare ogni cambiamento per poter continuare a fare il mestiere che tanto ci affascina, quello del critico alla finestra in un mondo che corre con la velocità di una cometa, nei rapporti di forza internazionali, nell’incontro/scontro fra culture, nel fluttuare delle ricchezze dall’una all’altra parte del globo, nell’impero della comunicazione globale che ci fa vivere la vita degli altri in tempo reale. Sono tutti fenomeni che si riflettono potentemente in quel meccanismo che regola il turismo di massa globalizzato, da cui ci sentiamo come soffocati e del quale non possiamo e non vogliamo fare a meno, mentre vorremmo ancora provare a usare il centro di Roma anche semplicemente come cittadini.
Ben pochi degli strumenti messi a punto in questi due secoli su quel cammino di ricerca/tutela/valorizzazione/gestione che torniamo a calpestare ci sembrano ancora validi oggi. Sono mutate le categorie esterne a noi e al nostro mondo specialistico; sono cambiate le discipline, e il senso della loro pratica, che si tratti della ricerca storico-archeologica, degli strumenti del diritto, di quelli dell’architettura che vuole progettare sull’antico, della comunicazione che vuole diffondere il senso del patrimonio culturale, ma al tempo stesso fa da megafono a un pubblico potenziale di miliardi di persone, magari così diverse da noi, ma non per questo prive di una loro coerenza, da ascoltare.
Per questo il mio invito è a studiare un po’ anche il nostro recente passato. Capire, noi archeologi o architetti, studiosi del patrimonio culturale abituati a toccarlo con le mani, chi siamo e da dove veniamo, con quali categorie in testa pensiamo di fare la nostra parte davanti a problemi a volte più grandi noi, o dovrei dire più grandi di chiunque. Ma davanti ai quali non possiamo sottrarci dal produrre idee e proposte, sapendo che i monumenti e i siti storici non sono certo né di noi che li scaviamo né degli architetti che li trasformano, né dei professori che ne scrivono libri né dei funzionari che ne rallentano il degrado.
Roma si è sempre specchiata nei suoi monumenti, smontandoli, proteggendoli, trasformandoli, congelandoli. Li ha comunque sempre usati e dalla fine del Settecento ha cominciato a riflettere sull’uso che ne faceva. Tante cose sono cambiate in questo secolo abbondante. E ne sappiamo oggi infinitamente di più. Direi che nulla è come prima, se non la difficoltà che noi addetti ai lavori, e di conseguenza la politica, ancora proviamo nel misurarci con la finalità sociale delle nostre competenze specialistiche. Poniamo un freno alle lamentele catastrofistiche e insieme autoassolutorie che ci bombardano quotidianamente e proviamo, piuttosto, a riflettere sulle nostre responsabilità di interfacce pensanti tra un patrimonio storico sconfinato e una platea umana ormai globalizzata, nelle cui mani è il suo destino.