di Franco Zagari
Architetto e paesaggista Ordinario di Architettura del Paesaggio
Dedico questa breve memoria a Vittoria Calzolari Ghio, un’assoluta protagonista della vicenda del paesaggio romano, scomparsa mentre ne scrivo le mie ultime battute. È ovvio che il nostro pensiero si estenda con commossa gratitudine anche al marito Mario e al figlio Francesco, una famiglia il cui impegno per la causa di una città civile è stato esemplare per tutti noi.
Riflettendo sul destino dei parchi a Roma ci rendiamo conto che in realtà stiamo interrogando un paesaggio del tutto nuovo, non tanto un oggetto guardato, ma un meraviglioso soggetto che guarda, ci rappresenta, ci giudica. A Roma, come è noto, tutto nasce, si atrofizza e muore nella sua Grande Bellezza. E così avviene anche per il verde, con la stessa sciatta grandezza e decadenza. Chi può ne gode passivamente come di un privilegio dovuto per nascita, un indicatore infallibile di agiatezza, un dono che in fondo è subìto ma non desiderato. E questo distacco, un po’ passivo, un po’ cinico, curiosamente vale per il privato come per il pubblico: del verde in fondo se ne parla poco, solo ogni tanto, o tutt’al più se ne canticchia, pensando magari ad altro: “… Era un ragazzo come noi… “.
Neanche Esopo avrebbe potuto descrivere il destino apparentemente immobile e cinico dei Romani, che spesso sembrerebbero uniti solo nella mancanza di un sogno. Da qui parte la vicenda di ciò che con una certa perfidia chiamiamo verde, come dire, una “cosa”, tanto semplice da essere rozza e indefinita.
Ma Roma è Roma, saprà sempre farsi perdonare e amare e noi suoi figli sapremo essere fieri di lei, senza dimenticare che in questo campo può vantare una ricchezza non comune, la vastità dei suoi parchi, che parchi in senso pieno non sono, obietterà qualcuno, neanche un metro quadro di livello adeguato, ma che pure esistono.
In un parco di nuova generazione normalmente il costo della vegetazione si avvicina a un decimo del valore complessivo dell’opera, da noi c’è solo quello, poco più.“Verde”? Parlare del verde a Roma è un esercizio retorico da far pensare al delirio di un daltonico. Ma non credo che la soluzione dei problemi sia nell’esorcismo di parole e definizioni. Per questo accetto di usare questo termine, ambiguo ma di vasta fortuna che ha assimilato in sé ville storiche, viali e passeggiate, giardini, orti botanici, aree golenali, per poi trasformarli pian piano in numeri, pesi, misure e standard, un’astrazione perniciosa che nelle statistiche oscura significati e qualità. Ma conviene tenerlo comunque stretto questo termine, perché è il più diretto per parlare al pubblico. È certamente questo che la gente vuole e chiede: il “verde”. Il verde in realtà definisce ogni categoria dello spazio pubblico caratterizzata dalla presenza di vegetazione. Da qui l’equivoco che in sé sia una compensazione “naturalistica” del nostro mestiere di vivere. È invece un errore separarlo in questo modo perché cultura e natura sono due concetti non antitetici ma dialettici di uno stesso soggetto, il paesaggio, e ogni cultura ha una o più visioni dell’idea di natura, a volte anche conflittuali. Sarebbe bene non ridurlo a un fattore solo quantitativo mentre, come vedremo meglio, l’obiettivo del paesaggista è di ascoltare vocazioni e cercare principi di orientamento e qualità di centralità, ovunque lavorando su relazioni che vanno tutelate, gestite, valorizzate, dunque lavorare su valori evolutivi che il paesaggio nelle sue infinite forme rappresenta di ogni società. Perché il paesaggio non è mai un tema innocente, è un’espressione della nostra cultura dove le verità si alternano, diafane o opache, si confondono e si dipanano, sperimentando i codici genetici della città a venire, con un amore molto paziente.
Ne abbiamo molto, a Roma, di verde, ma è in grande abbandono, da quello urbano a quello rurale a quello che non chiamerei naturale ma residuale, ciò che resta indefinito di un triste pasto urbanistico che non ha mai finito di devastare la nostra città, interessante perché spesso è tesoro di biodiversità. Verde quindi definisce con una forte semplificazione tutti gli spazi esterni con prevalenza di vegetazione, dagli ambiti storici e archeologici agli ambiti più innovativi, i quali oggi purtroppo sono da noi molto rari, con assetti che perdono la chiarezza dei paesaggi di un tempo, si spogliano di significati e di contenuti simbolici come di un’organizzazione funzionale dello spazio e si confondono, in un assetto sempre più materiale e privo di qualsiasi tratto espressivo. Cercherò di farmi perdonare di questa mia irriverenza, proponendo qualche idea, in particolare farò alcuni esempi di attuazione in una prospettiva non solo culturale, ma anche sociale, economica e, quindi, eminentemente politica.
Passeggiare per Roma è un’esperienza meravigliosa e, in effetti, la continuità della vegetazione è uno dei motivi ricorrenti del suo fascino. Quando parliamo di “verde” ci preoccupiamo evidentemente non solo di collocare dei sistemi vegetali nel nuovo ordine urbano, ma siamo riduttivi rispetto a una concezione di spazio che rappresenti la nostra società con tutta la complessità che un’idea di natura richiede. Stabilire orientamento e centralità, ascoltare e interpretare le vocazioni di nuovi contesti, questa è la nostra missione di paesaggisti, architetti, urbanisti. La vegetazione ha un ruolo particolare, essendo auspicabile un disegno avanzato, quantità e qualità inedite, diversità, un contenuto tecnico e scientifico ma anche simbolico. Non è così immediato accettare i nuovi canoni di uno spazio che è del tutto nuovo: non è più né urbano, né rurale, né naturale ma un’alternanza imprevedibile e apparentemente incoerente di questi stati, che appartengono a quell’avvento di fenomeni che segna la nostra epoca, che brevemente può essere definito “della discontinuità”. Un primo principio di comportamento per un buon paesaggista è di non separare mai la vegetazione dagli altri sistemi, e in questo senso quando parliamo di “verde” questo ha un senso solo se è un sinonimo di habitat.
“Sfida” è il motto con cui un gruppo di studiosi della Sapienza (Di Carlo, Celestini, Ippolito, chi scrive) sta da tempo comunicando l’intento di stabilire un linguaggio comune per promuovere nel pubblico uno stato di maggiore consapevolezza di doveri e diritti, e quindi parlare alla politica, invitando a riflettere su quanto sia importante affermare nuovi principi di orientamento e qualità di nuova centralità in una città che tende sempre di più a modificarsi con rapidità e dimensione fin qui sconosciute.Qualcuno forse pensa ancora che i termini natura e cultura siano in antitesi fra loro? È evidente che ogni cultura ha un’idea di natura e che ogni idea di natura non ha senso senza una sua assimilazione culturale. Dunque se oggi ci chiediamo quale sia lo stato dell’arte del paesaggio a Roma diremo immediatamente che dobbiamo ancora comprendere il significato dell’articolo 9 della Costituzione e chiederne dopo settant’anni un’attuazione concreta: secondo quella enunciazione geniale che vede la cura del patrimonio e la ricerca come azioni da porre in continuo confronto, fino a diventare simbiotiche.Io credo che non sia così difficile tracciare una via maestra per attuare questo proposito, bisognerebbe secondo me avviare un progetto sperimentale attuativo a regia pubblica, con un coinvolgimento critico e attivo di tutte le risorse sociali ed economiche, applicato in più contesti geografici ed economici della città e a più dimensioni, da molto piccoli a molto grandi, con una corrente continua di confronto fra pianificazione, analisi e interpretazione dei dati. Con sorpresa scopriremo che un programma significativo può costare relativamente molto poco, è necessario cambiare mentalità e approccio: infatti l’unico modo per tentare di rigenerare il paesaggio è di accettarlo in tutte le sue contraddizioni, anche dove è più sgradevole e meno comprensibile, con pazienza, con un po’ di humour e con la maggiore competenza possibile, pezzo per pezzo, sia che si tratti della storia patria di contesti già noti e consacrati, sia che si tratti invece di cercare di rimettere in tensione parti immense del territorio che sono spente o abbandonate. È necessario allora saper ascoltare le vocazioni del luogo, concertare grandi linee di intervento ma, in parallelo, scoprire anche la forza straordinaria dei piccoli numeri, dai quali possono scaturire risorse impreviste, tutto ciò che è alla scala della nostra scena quotidiana, a stretto contatto con la gente.La categoria della discontinuità nel nostro discorso ha una particolare importanza: la debolezza di una situazione incoerente può farsi forza innovatrice se sfrutta a fondo nuove doti di flessibilità fino ad ora non sperimentate. Un ruolo strategico può essere affidato a sequenze significative di elementi, materiali o immateriali, disposte ad arte lungo dei sistemi lineari già dotati di un loro carattere. È sufficiente un’azione anche solo omeopatica, che proceda non necessariamente per grandi superfici, ma per punti caratterizzati da una sequenza di senso che ne fa degli insiemi significativi. Questo ci permette azioni che con il minimo sforzo ottengono il massimo risultato: l’uovo di Colombo, la leva di Archimede, la mossa del cavallo sono espressioni popolari che descrivono bene l’opportunità di un progetto di paesaggio di operare per sistemi discreti, con grandi economie di tempi e mezzi. E veniamo al punto: appoggiarsi con intelligenza a caratteri già attivi significa valorizzarli con sforzi contenuti, ed è interessante osservare che l’idea di procedere per processi progettuali è molto simile a strategie che sono in corso di sperimentazione con le nuove capacità d’impresa. L’obiettivo è in fondo lo stesso, garantendo un fine molto sofisticato al quale non ci si può sottrarre: una corrispondenza fra l’aura del progetto e la dignità del lavoro che esso genera. Il progetto di paesaggio rappresenta sempre valori etici, estetici e di conoscenza di una società rispetto ad un luogo. Per quanto siano importanti i suoi caratteri culturali, sono molto rilevanti anche le sue ragioni sociali ed economiche, e quindi politiche: per questo bisogna sostenerne una priorità attuativa, perché qui vi è un nodo essenziale della nostra convivenza democratica.C’è poi l’insegnamento di Juan Manuel Palerm, che chiameremo dello “scarrocciamento”, secondo il quale la nostra ricerca deve essere simile alla strategia di rotta di un marinaio: avendo un obiettivo da raggiungere la navigazione non avviene mai per linea retta ma sfrutta il vento e le correnti con frequenti cambiamenti che lo portano sempre più vicino. È questo un principio chiave del nostro comportamento. Ci rendiamo presto consapevoli che il gioco fra cause ed effetti nella progettazione del paesaggio è molto complesso e fa riferimento non solo a perseguire obiettivi dichiarati di un singolo intervento ma a prevedere almeno in parte tutti quegli effetti collaterali e indotti che spontaneamente un’azione produce, spesso di gran lunga più rilevanti della loro causa. È qui che la politica deve saper cogliere le vocazioni di un luogo o di un sistema di luoghi e tradurle in indirizzi chiari, nel tempo e nello spazio, con programmi che non distinguono risorse materiali da risorse umane, le une indispensabili alle altre per il successo di qualsiasi iniziativa.La politica deve, come si dice, “metterci anche la faccia”, impegnarsi chiamando alle proprie responsabilità studiosi, progettisti, imprenditori, cittadini, tutto il ciclo ideativo, gestionale, produttivo che deve sostenere un’opera. Si tratta, in Italia, ma in particolare a Roma, di riorganizzare un campo scientifico, produttivo e professionale che ha di fatto sospeso una grande tradizione. Il vero cambiamento dovrebbe riguardare il ripristino dell’aura del progetto e la semplificazione delle prassi attuative. In poche parole: il progetto dovrebbe tornare ad essere un’alta istituzione civile, che impegna la responsabilità di attori e autori nell’osservanza di un mandato trasparente concertato e condiviso. Le Amministrazioni dovrebbero produrre e appoggiare politiche basate su indirizzi e programmi calibrati e precisi nello spazio e nel tempo, ridurre norme e reti coercitive, dare ai processi progettuali lo spessore di un rapporto fra opere e competenze, ragionando non solo sugli effetti diretti, ma anche e soprattutto su quelli indotti e collaterali e sul principio di attivare un principio di emulazione.
Grazie alla Convenzione Europea del Paesaggio si è ritornati a pensare il territorio nella sua totalità, affrontando non solo le aree pregiate già codificate, ma anche quelle dove il disastro urbanistico è più devastante, senza negarne l’esistenza, anzi cercando vocazioni di rigenerazione forse proprio dove la nuova città è più cruda, priva di centralità e di riferimenti.
La storia del verde di Roma capitale è ricca di atti eroici ma anche di gravi sconfitte.
Nel 1870 fra ville, giardini e parchi storici, le sontuose residenze di un potere temporale sorpassato dal tempo e la meraviglia dell’agro, giunto quasi intatto all’unità d’Italia, a nord paesaggio di forre come nei dipinti di Poussin e Le Lorrain, a sud come lo descrive Carlo Emilio Gadda nel Pasticciaccio, paesaggio di balze morbide e acquedotti, e in mezzo, ancora, sistemi urbani fortissimi come gli ottantamila platani piemontesi (e massonici) che sono stati la vera impronta della nuova capitale d’Italia, o i pini a ombrello, i lecci, l’alloro, i cipressi delle passeggiate archeologiche, splendide piantagioni autarchiche, sono stati decimati. Importantissimo lo spazio pubblico dei parchi del Novecento, la grande opera di Raffaele De Vico, mortificato dall’incuria, il vero inventore e padre-padrone del paesaggio urbano romano per un tempo infinito, mentre implacabile è in corso l’assedio dell’urbanesimo ai quartieri borghesi, dai quartieri Ina casa alle borgate di Accattone di Pasolini, un mondo che ci appare mitico: questa è la nostra preistoria, di cui caratteri forti sopravvivono loro malgrado. Fino alla città illegale, un milione di vani che devastano il territorio. È vero: è più il verde come biomassa che resiste, che non i paesaggi, che presto si fanno confusi. La consapevolezza della nostra origine e di quanto un’idea di paesaggio abbia fatto così tanto per l’immagine di questa città deve ristabilire una continuità anche con una visione di futuro.
A fronte del degrado, per una legge di compensazione di cui qualcuno forse saprà comprendere i motivi, si percepiscono anche sintomi di segno diverso. A Roma ci sono firme, e illustri, sul tema del giardino e del paesaggio, parlo di autori e intellettuali che creano un ambiente, che come tutti gli ambienti d’arte è tellurico e a volte scabro, ma c’è. E in effetti una galleria platonica di figure singolari di intellettuali cultori del paesaggio Roma la può vantare: Ippolito Pizzetti, Francesco Ghio e Salvatore Dierna sembra che siano ancora qui tanta è stata la loro influenza sul nostro pensiero.
La risposta di questa attrazione nasce da una necessità, la ricerca di un equilibrio o di una decisa distanza rispetto a un mondo che cambia rapidamente. Un’immagine romana diventata familiare, il volo degli storni al crepuscolo, è un’espressione manifesta della mutazione genetica della città. Presto forse chiederemo perfino aiuto all’ailanthus e alla robinia per riconoscere un senso creativo originale di questa metamorfosi, piante corsare sopravvissute al nostro odio e che, se non altro, hanno una loro consequenzialità pioniera e rapace, parlano la stessa lingua dei gabbiani.
Roma anche in un periodo così difficile della sua storia sembra essere ancora capace di esprimere una scuola competitiva in un contesto internazionale. Ed ecco prodursi molti segni positivi: una realizzazione esemplare di un gruppo del Quasar a Chaumont, nel Gotha del paesaggio internazionale; un concorso a Pomezia che ha rivelato nella generazione più giovane una straordinaria maturità di approcci e talenti ormai pronti per entrare nel mercato con autorevolezza, e in una giovane Amministrazione la volontà di scommettere; un master internazionale di Landscape Design diretto da Achille Ippolito con modalità originali e curato nei minimi dettagli; la settima edizione di un Festival annuale del verde e del paesaggio ideato da Gaia Zadra, che si tiene ogni maggio con oltre 16.000 presenze per tre giorni all’Auditorium, evento che è ormai un primato nazionale.
Penso che la spinta passionale del pubblico, che sostiene questa iniziativa, dichiari in modo esplicito il desiderio che anche a Roma, come in ogni capitale europea, il gioco della progettazione del paesaggio esca dalle terrazze private e occupi la città.
Parlo di viali, parchi, giardini, riserve naturali, vivai, orti botanici, boschi e foreste, biomassa, bancali di fiori. E parlo anche di giardini verticali e pensili, che sono una delle prime nuove frontiere per recuperare ad uso della comunità le superfici degli spazi che vengono costruiti.
E i soldi? Verranno. L’ansia della spesa è cattiva consigliera. Alla domanda “… Cosa costa fare un’opera di paesaggio?...”, bisogna sempre controdedurre una domanda opposta: cosa costa non farla? Si scoprirà che fra le opere pubbliche quelle di paesaggio sono le più capaci di far maturare effetti, imprevedibili indotti, a volte grandi risultati con piccoli sforzi. Così io penso che il paesaggio possa e debba fare, essere un ponte fra immaginario e forme d’arte, scienza di relazioni, principio creativo di sequenze di senso e principio di orientamento, perché anello stretto fra consapevolezza storica e visione del futuro, perché qualità potenziale di qualità diffusa.
Peccato, borsellin
Se ti tormento
Candido specchio
Delicato fiore1
L’ansia della spesa si abbatte su quanto è più delicato e radicato nel sentimento. Ma quello del paesaggio non è solo un nostro mondo poetico, è una mappa di doveri e di diritti nella quale è scritto l’atto costituente di quel patto sacrale di civitas che ci lega a un luogo di cui ci sentiamo partecipi e responsabili. Ed ha un contenuto sociale ed economico di ampia portata, incredibilmente ampio se la studiamo da vicino. Per questo alla domanda di AR di esprimere un’opinione sul verde a Roma penso di dovermi contenere nei lamenti e cercare piuttosto di evocare momenti anche positivi, alcuni perché no veri e propri trionfi.
La grande bellezza a Roma sembra disposta a grandi eventi temporanei, più che alla costruzione di uno stato quotidiano e diffuso di qualità. In particolare tre opere recenti mi hanno molto colpito, tutte avvenute quasi per caso, senza destare il sonno della città, che in un primo tempo le ha subite suo malgrado, e vi prego di condividere con me l’idea che siano tre opere di paesaggio ancor prima che opere d’arte, perché tutte fortemente interattive fra i comportamenti del pubblico e alcuni luoghi. L’ultima in ordine di tempo è un atto eversivo di Greenpeace, “Planet heart first”, avvenuto durante la visita di Trump in Vaticano, a sorpresa la proiezione con un laser sulla cupola di una sua frase dove al primato degli Stati uniti si sostituisce il primato della Terra. Subito prima all’Auditorium Parco della Musica il Festival del verde e del paesaggio ha invaso con una foresta mobile spettacolare gli spazi di accesso alla cavea, un progetto (Fabio Di Carlo, Benedetto e Gaetano Selleri Pan Associati) che sono sicuro sia piaciuto molto a Piano. Infine il primo in ordine di tempo è Trionfi e lamenti, una storia di Roma raccontata da William Kentridge con un diorama di ottanta immagini, 9 per 500 metri, graffite sul muraglione da Ponte Mazzini a Ponte Sisto per sottrazione, cioè semplicemente asportando la patina di polluzione accumulata in un secolo con una idropulitrice, è l’esatta dimensione del Circo Massimo, uno spazio che viene nominato “Piazza Tevere”.
In molti abbiamo discusso sull’opportunità di cercare sistemi di orientamento e di centralità soprattutto attraverso sistemi lineari.
In una città satura, impermeabile a qualsiasi assetto di riorganizzazione che abbia un disegno riconoscibile e comunicabile, i concetti classici di centro e di periferia descrivono sempre meno una condizione abitativa che qualifichi le attività, i flussi, i comportamenti dei suoi paesaggi.
Qui di seguito faccio riferimento a temi che sono in discussione sull’ipotesi di una riscrittura della città agendo per reti, sezioni, parchi lineari.
L’idea di agire lungo delle linee che sono già legate a una loro identità nell’immaginario del pubblico, anche solo toponomastica, come strade, lungofiumi, rive, crinali, significa cogliere quella che sembra un’opportunità ragionevole: una mappa flessibile e sempre modificabile di sezioni che stabiliscono per i cittadini una rete di tracciati nominabili e comunicabili tesi fra opposte estremità, divisi in segmenti da mete. Qualsiasi piccolo atto coerente compiuto su queste linee demoltiplica la sua forza.
Innanzitutto pensiamo alla riqualificazione di strade che sono importanti dorsali ma che per difetto di presidio diventano dei campi di attrazione di attività improprie e disgregative di una centralità: prostituzione, spaccio, sfasciacarrozze e via dicendo, come viale Togliatti, che è una lunga tangenziale orientale che avrebbe invece una forte vocazione di spina dorsale di un sistema di nuove attività, se fosse riscritta anche solo con alcuni sistemi, come il disegno degli incroci con le consolari, o sequenze di arboreti tematici quartiere per quartiere.
Oppure si vedano, sempre lineari, infrastrutture che creano delle fratture di discontinuità come la trincea ferroviaria che taglia i quartieri dell’Appio Latino, che potrebbe riorganizzare nel sottosuolo i flussi carrabili, ferroviari e di servizio ed essere coperta da un parco lineare, sottraendo un immenso habitat alla servitù di un traffico passante inquinante, lento, rumoroso, devastante. Un altro caso interessante è l’idea di una passeggiata fra ponte Cavour e ponte Margherita, un’opera temporanea e reversibile montata a mensola sul filo del parapetto per una profondità di 4-5 metri, che offrirebbe al centro storico un rapporto migliore con il fiume, un percorso-solarium molto godibile, un vero e proprio piccolo parco in simbiosi con l’Ara pacis. Un’altra proposta è di nuovo una promenade disposta “in bolla”, con implacabile precisione di uno strumento di misura lungo la curva di livello 100 slm, perfettamente orizzontale dall’Osservatorio di Monte Mario al Cimitero militare francese, che offre uno dei più affascinanti e vari panorami sulla città di Roma, un intervento utilissimo per i quartieri di Belsito, Balduina, piazza Walter Rossi, e allo stesso tempo una meta d’obbligo per i turisti che visitano Roma, una strada giardino che lega molti punti d’interesse e una via di prevenzione degli incendi. Un’opera irresistibile, il cui finanziamento può essere ricavato da quanto (molto) oggi si spende per la manutenzione della costa, gli incendi e la loro prevenzione, ecc. Fra le varie possibilità di nuovi ponti sul Tevere e sull’Aniene, il ponte pedonale previsto dal PRG fra la Vasca Navale e la Magliana è interpretato come l’opportunità di realizzare un grande ponte museo con in copertura la spiaggia più grande di Roma (elaborato con Mario Paolo Petrangeli). Suolo gratuito, un intervento di grande utilità culturale e sociale, una risorsa molto promettente. Nuovi ponti, anche se non monumentali, potrebbero stabilire valori di centralità in punti di afasia e debolezza, essere generatori di una riqualificazione urbana di ampia riverberazione. Tutto a Roma allontana dal fiume: nella prospettiva di una riappropriazione di vita delle rive, proprio la dimensione trasversale dei ponti può offrire straordinarie possibilità e rivelare nuove vocazioni latenti. Questa idea si rafforza scoprendo che sotto il profilo economico un ponte è una struttura relativamente poco impegnativa, anche limitandoci ai semplici costi di costruzione, mentre andrebbero invece valutati tutti i numerosi fattori di indotto, come il risparmio in chilometri e ore sul traffico, la valorizzazione delle aree pubbliche e private coinvolte e, perché no, il valore in sé dell’area che la comunità “inventa” dal nulla in parti straordinarie della città. Da qui un invito a pensare tanti tipi diversi di ponti, non solo strade trasversali, ma piazze, e non solo carrabili ma pedonali. Se questo è quanto il nuovo Piano regolatore sta già facendo, si tratta solo di insistere, farne una tematizzazione “spinta” della città.
È importante capire che l’attuazione di un ponte ha un’incidenza forte di valorizzazione della vita delle rive e dell’intera città ancor prima di entrare in merito a quale sia la sua ubicazione dal punto di vista trasportistico. La grande colonna vertebrale del Tevere è da tempo tagliata fuori dai gangli vitali dei quartieri, almeno da quando, lungo la seconda metà del Novecento, i lungofiume sono diventati sempre di più vie di traffico veloce e l’alveo si è definitivamente incassato, difficile da vedere e sgradevole da raggiungere. Per la mobilità, del trasporto pubblico come di quello privato ma anche pedonale, gli attraversamenti di Tevere e Aniene dovrebbero essere più frequenti, in modo che le maglie in corrispondenza del fiume non siano troppo anomale e discontinue rispetto a quelle dei quartieri.
Perfino il Corviale è un paesaggio che potrebbe essere riqualificato proprio con questo metodo. Oggi ha la metà degli abitanti per cui è stato progettato, è completamente fuori norma, non è in grado di sostenere i costi di gestione, i tipi abitativi sono protoindustriali, eppure la forza della sua immagine, il suo carattere, la sua storia escludono la scelta di demolirlo. Un progetto straordinario è dovuto da Roma al Corviale se la città non vuole subire una catastrofe che la inghiotta: a parte la messa a norma sismica e dei sistemi di risalita noi riteniamo che un’idea di paesaggio potrà salvare questa balena bianca. Un’intuizione forte sul colore (Campus), una separazione dei flussi pubblici da quelli privati, il ridisegno dei cavedi come giardini di inverno di vetro, la creazione di un portico continuo al piano terra, l’apertura al pubblico delle terrazze dell’attico fino ad ora inaccessibili facendone un paleoparco di 25.000 mq con uno dei panorami più belli di Roma (Catalano), una complessa macchina di formazione e di partecipazione (Abruzzese/Massidda), non è questo un progetto di paesaggio?
Dunque è proprio qualcosa simile a un reset che ci serve, un grande cantiere di sperimentazione in simbiosi con una pianificazione fortemente partecipata. Sono le due anime di una politica per un habitat di qualità, che dovrebbero cooperare in ogni momento con continui reciproci scambi d’informazione e conseguenti tempestive correzioni di tiro.