Architetto Montuori, qual è il suo bilancio di questo primo periodo da assessore di Roma? Nel corso di questi mesi ha iniziato a definire una lista delle priorità da affrontare?
Sono stati tre mesi molto intensi, dedicati proprio all’obiettivo di realizzare una mappa delle priorità e dello stato di attuazione di programmi che vengono da una lunga gestazione, cercando di capire come questi si possano integrare in una certa idea di città confluendo in programmi futuri, nelle politiche che vogliamo mettere in atto. Abbiamo innanzitutto le urgenze legate a procedimenti rimasti fermi per anni anche a causa del periodo di commissariamento del Comune di Roma: sono urgenze proprio perché vengono da storie di circa dieci-dodici anni, su cui gli investitori hanno particolare interesse e su cui il Comune ha creato in passato aspettative anche economiche; è giusto che ora arrivino a conclusione, cercando di recuperarne le parti migliori e rinegoziando laddove è necessario l’interesse pubblico che questi progetti devono realizzare. Penso ad esempio al progetto dei Mercati Generali, su cui - al pari di altri - Roma sta discutendo da anni. Un’altra situazione che merita attenzione è quella dell’edilizia residenziale pubblica. Sappiamo che a Roma coesistono una forte emergenza abitativa e un elevato numero di alloggi vuoti. La situazione non è chiara,
il tema è molto delicato: anche qui è necessaria una mappatura dello stato di convenzionamento di tutti i programmi di edilizia residenziale pubblica 167, per capire a che punto sono, se sono stati realizzati i servizi, se i prezzi concordati nella convenzione sono stati rispettati. Abbiamo in sostanza il grandissimo problema di capire qual è lo stato di attuazione del PRG, di capire cosa è effettivamente successo in questi ultimi dieci anni. Perché se da una parte abbiamo una previsione, esiste un Piano, dall’altra c’è stata una serie di strumenti che hanno agito in deroga, per esempio tutte le compensazioni, le densificazioni che hanno interessato alcune aree, o il Piano Casa, di cui tra qualche anno vedremo gli effetti. In merito a questo, ho chiesto ai municipi un resoconto di tutti gli interventi realizzati con il Piano Casa, cercando di distinguere i semplici ampliamenti da quegli interventi derivati ad esempio da diritti edificatori acquisiti ancorché in programmi urbanistici decaduti, interventi con grandi cubature che vanno a ridisegnare intere parti di città. Parliamo di interventi fino a 100.000 mq di residenziale, in aree in cui questo residenziale non era previsto; se è vero che una parte importante di questi progetti è destinata all’housing sociale - dato molto importante - tuttavia non possiamo ignorare l’impatto molto forte creato in alcune aree urbane. Queste sono le emergenze su cui crediamo vada impostata la politica da qui ai prossimi anni. Significa rendersi conto del significato che ha costruire interi brani di città, di come vari strumenti si armonizzino tra di loro, e di come in questo si configuri la possibilità di un interesse pubblico, facendo rientrare tutto all’interno di un disegno politico.
Un altro argomento di interesse all’interno del dibattito architettonico contemporaneo è quello dello spazio pubblico e del rapporto tra questo e le periferie. Lei ha alle spalle un passato di studi condotti anche in ambito universitario sul senso e il significato dello spazio pubblico oggi. È cambiata la sua visione una volta entrato in una struttura politica?
Da sempre ho sostenuto che nella città contemporanea lo spazio pubblico non si possa limitare all’idea tradizionale della piazza, dello spazio di prossimità in cui ci si ferma prima di tornare a casa dopo il lavoro. Questa visione della città è legata a un preciso momento storico, in cui esisteva un rapporto chiaro tra la struttura della città, la struttura del lavoro e il modo in cui il tempo all’interno della città veniva scandito, con orari ben definiti e una ben definita quota di tempo libero trascorso in parte anche nello spazio pubblico. Oggi non è più così, il tempo libero è un breve intervallo tra momenti in cui si lavora in maniera discontinua. Uno dei più grossi temi dello spazio pubblico è oggi legato alla possibilità di spostarsi nella città, la vita pubblica è legata a un movimento all’interno della città, a spazi diversi dagli spazi pubblici tradizionali dello stare, quelli che - semplificando - ci immaginiamo pensati per gli anziani e per i bambini. Esiste una fascia di popolazione compresa tra i 15 e i 65 anni che vive lo spazio pubblico in maniera diversa, e intorno a questo ci dovremo interrogare. Dal punto di vista pratico questo significa da un lato pensare una città in cui ci sia una forte connessione tra densificazione, nuove costruzioni e spostamento, tra luoghi di lavoro e luoghi di residenza, dall’altro pensare anche alla possibilità di permettere la realizzazione di tipologie abitative diverse da quelle tradizionali presenti nella normativa corrente. Un terzo importante elemento è favorire lo sviluppo di quei progetti complessi previsti nel precedente PRG, penso ai PRINT, in cui si unisca lo strumento a una pianificazione di una certa complessità, attraverso la realizzazione di consorzi di proprietari. Il Piano Casa ha ridotto tutta quella che è la programmazione di scala urbana all’intervento diretto, ma tra la pianificazione urbanistica e l’intervento diretto esiste una scala intermedia ad oggi non minimamente considerata che è invece quella a cui viene costruito lo spazio pubblico. Se la mano pubblica riprendesse in mano la questione, potrebbe porre quelle invarianti attorno alle quali si costruiscono poi la residenzialità e tutto ciò che permette a quelle stesse invarianti di vivere, anche perché non esiste uno spazio pubblico in astratto.Dovremmo abbandonare la nozione di standard, cui siamo ancora legati, e tornare sul concetto di qualità, a partire dal ruolo dell’amministrazione nel definire quella fondamentale scala intermedia di progettazione, stabilendo chiaramente quale sia l’interesse pubblico dell’urbanizzazione, della crescita urbana.
A questo proposito, avete già individuato delle aree sensibili?
No, ma prendiamo la legge sulla rigenerazione urbana come un’occasione. Deve ancora essere verificata, perché contempla al suo interno alcune possibilità di intervento diretto che bisognerà capire in che modo vanno in attuazione, però la possibilità di riperimetrare delle aree, di capire come è cresciuto il PRG in questi dieci anni e di individuare delle zone di sviluppo rappresenta sicuramente un’importante occasione. Per il resto, bisogna lavorare sui PRINT, e tra questi una delle priorità è il PRINT di Pietralata, su cui contiamo di andare in delibera subito dopo la pausa estiva.
Relativamente ai processi partecipativi, la sua opinione più volte espressa anche pubblicamente è che questi non siano tanto un modo per far scegliere il cittadini, quanto per convincerli della bontà dei progetti su cui lavora l’Amministrazione pubblica. Da politico, è cambiata la sua visione?
Il tema della partecipazione si sta allargando in maniera evidente, per la consapevolezza dei cittadini anche del potere che hanno di intervenire giustamente in alcuni processi. Ho sempre pensato che chiedere ai cittadini di progettare fosse uno strumento utilizzato per neutralizzarne il vero potenziale, chiedendo loro di assumersi responsabilità che non possono avere; è un passaggio molto delicato, bisognerebbe giocare molto di più sulla capacità che si ha, nell’interazione con i cittadini, di far emergere dei bisogni da tradurre in progettazione anche di spazi fisici. L’errore più grande in questi processi è la mancata indagine sulle reali esigenze in un determinato quartiere, come è altamente rischioso consegnare la partecipazione in mano solo a gruppi limitati di cittadini: quelli portatori di interessi consolidati, o quelli che hanno tempo di dedicarsi alla partecipazione, finendo per escludere i cittadini attivi. La difficoltà sta nel fotografare i luoghi in cui si va a operare, capire in quale realtà ci si va a inserire. La partecipazione è un processo molto complesso, perché deve saper tenere insieme molteplici interessi e conflitti, è un’opera di mediazione molto sofisticata. Chiedere semplicemente ai cittadini di definire come vorrebbero trasformare la parte di città in cui vivono serve solo ad aumentare il conflitto piuttosto che a progettare insieme il futuro.
Un’ultima domanda: come sta procedendo il lavoro condotto sullo studio dell’illuminazione pubblica, dopo l’ampio spazio dedicato alla stampa al tema dei LED?
Mi diverte notare come alcuni temi o alcuni nodi diventino importantissimi perché si legano ad alcuni dati che sembrano oggettivi nella configurazione dello spazio della città, parliamo in questo caso dei gradi Kelvin delle lampadine. Dobbiamo però entrare nel merito di cosa significhi cambiare l’illuminazione di una città e prendere innanzitutto atto che il piano LED è un piano di illuminazione stradale, che non ha nulla a che vedere con l’illuminazione monumentale, ma che comunque deve essere pensato. Dobbiamo considerare che esistono innanzitutto degli standard a cui non si può derogare in nome di una presunta “identità”, che esistono degli spazi pedonali dove va innanzitutto mantenuto un livello di sicurezza, che l’illuminazione a LED permette una migliore definizione delle immagini da parte delle telecamere di controllo.
A valle di queste considerazioni, abbiamo creduto che fosse importante coinvolgere intorno a un tavolo degli esperti, perché questo piano non fosse solo l’applicazione di una norma, ma perché ci fossero delle idee attorno alle quali questa trasformazione potesse essere attuata. Abbiamo fatto una convenzione con la Terza e la Prima Università, che gestiscono insieme il Master di Lighting Design diretto dal professor Frascarolo e dal professor Catucci, e abbiamo dato vita a un tavolo formato da tutti coloro che hanno parola intorno a questo argomento: le sovrintendenze, gli uffici preposti, le università e la parte politica che ha voluto questo tavolo per entrare nel merito del progetto e non parlare soltanto di numeri.
Ritengo che abbiamo raggiunto un buon compromesso, attendiamo in questi giorni i primi risultati del lavoro degli esperti.